Una malattia “orfana di cure”: Atassia di Friedreich, la lenta marcia del disequilibrio.

Cos’è l’Atassia di Friedreich, la lenta marcia del disequilibrio

Penso che sia importante, per tute e tutti noi, sapere/ricordare che esistono malattie “orfane di cure”. Dal 2010 ad oggi l’Associazione “Ogni giorno” – per Emma – onlus –  ha pubblicato 5 libri (clicca qui per saperne di più, e nel contempo sostenere l’associazione acquistandone uno o più) di cui  “Oltre la siepe cerchiamo un mondo migliore” è l’ultimo in ordine di tempo. Da questo libro, e dal sito dell’Associazione, trarrò alcuni brani per introdurmi, con voi, nel mistero di questa malattia e conoscere chi la combatte quotidianamente e come.

Cos’è l’Atassia di Friedreich? Ecco il brano iniziale della scheda redatta dal Dott. Andrea Martinuzzi (Primario Neurologo, Referente Clinico-Scientifico di Polo IRCCS “E. Medea”, Polo Regionale di Conegliano – Pieve di Soligo) per il sito dell’Associazione:

Questa malattia, che compare negli adolescenti scombinando in primo luogo la loro coordinazione motoria (determinando per l’appunto l’atassia: mancanza d’ordine) si associa a segni distribuiti in diversi sistemi, dal cuore all’occhio, dai nervi periferici al sistema endocrino, e si caratterizza per una lenta progressione che al momento attuale nulla riesce ad arrestare…”

Io sono venuto in contatto con questa terribile malattia alcuni anni fa, quando ho avuto occasione di conoscere sul lavoro Tatiana, una ragazza allora oggi una giovane donna, che combatte contro l’Atassia di Friedreich.

Solo ora mi rendo conto che in tutti questi anni ho imparato a conoscere – ed apprezzare profondamente – quella splendida persona che è Tatiana, ma purtroppo non ho saputo/voluto conoscere di più la temibile malattia che l’affliggeva. Dopo aver letto questa mattina qualche pagina del libro “Oltre la siepe cerchiamo un mondo migliore” è stato inevitabile aprire Beccodiferro per scrivere questo articolo.

Iniziamo quindi a conoscere come è nata l’Associazione, leggendo la presentazione di Annalisa Bertazzon, legale rappresentante dell’Associazione “Ogni Giorno per Emma – Onlus”

“Chi siamo
Ci sono sempre due scelte possibili nella vita: accettare le condizioni in cui viviamo o prendersi la responsabilità di cambiarle!

L’Associazione Ogni Giorno per Emma, nasce nel novembre 2010 con riconoscimento in Onlus da parte dell’Agenzia delle Entrate in data 22 novembre dello stesso anno.

L’Associazione prende vita per iniziativa della famiglia Della Libera di Vascon di Carbonera (Treviso) ed i suoi fondatori sono i genitori di Emma Della Libera: Italo e Annalisa e suo fratello maggiore di nome Rocco.

Emma Della Libera con i genitori, Italo e Annalisa, e il fratello Rocco

La famiglia Della Libera ha appreso che Emma è affetta da una seria e impegnativa patologia (diagnosi avvenuta nel 2010) denominata ATASSIA di FRIEDREICH. La malattia è di tipo genetico, ereditaria, colpisce in modo progressivo tutte le parti del corpo, lasciando intatte le sole capacità cognitive. Rientra nella categoria della malattie rare. La malattia è ad oggi definita ORFANA di cure. La rarità della malattia e la poca conoscenza da parte di buona parte del mondo medico e anche del mondo politico, tiene lontani gli investimenti di case farmaceutiche e dei fondi pubblici.
Dopo un primo momento di assoluta dolorosa disperazione, Italo e Annalisa con Rocco e anche con Emma hanno realizzato consapevolmente che NON FARE NIENTE, aspettando solo che prima o poi qualcosa di positivo sarebbe accaduto, non avrebbe risolto il problema.
Ecco allora la scelta di fondare Ogni Giorno per Emma.

Dopo pochi mesi dalla nascita di Ogni Giorno, c’è stato un incontro importante con Elisa Ceschin e la sua famiglia, Daniela e Gianfranco Ceschin. Da subito è nata un’intensa collaborazione per il raggiungimento dell’obiettivo che ci sta tanto a cuore, ovvero la cura per l’Atassia di Friedreich.

Elisa Ceschin con i genitori, Daniela e Gianfranco

Lo scopo: sostenere e promuovere ricerche e sperimentazioni atte a bloccare/curare la malattia.
Raccolta fondi finanziari finalizzati a questo obiettivo.
Far conoscere attraverso i media e direttamente, l’esistenza della patologia nel territorio di nostra pertinenza e anche fuori del nostro ambito territoriale.

In che modo: principalmente proponendo i libri che abbiamo scritto e pubblicato come Associazione.
Le offerte in denaro relative a questo, avvengono tramite l’organizzazione di iniziative a tema in Parrocchie e Comuni del nostro territorio.
Inoltre, con il contributo e collaborazione di tante persone, famiglie e organizzazioni o enti che hanno abbracciato la nostra causa, vengono organizzate anche cene benefiche, rappresentazioni teatrali, concerti di vario tipo, eventi sportivi e tanto altro.

Ci siamo rimboccati le maniche senza piangerci addosso .”

E adesso lascio a Tatiana – che da poco ha conseguito il titolo di “Counselor” il compito di presentarsi, così come ha fatto nel libro “Oltre la siepe cerchiamo un mondo migliore”

 

Mi chiamo Tatiana Bombardi sono nata a Genova l’8 settembre 1991. Non ricordo un momento della mia vita in cui mi sono sentita “normale”, come gli altri. Già, ci si domanda spesso cosa sia questa normalità, finendo per eliminare questo termine ma, alla fine, nella nostra società semplicistica, i “normali” sono i sani.

Questo per dire che nel mio caso i sintomi della malattia hanno iniziato a manifestarsi sin da piccola. Mia mamma all’età di 8 mesi mi ha portato a fare l’elettroencefalogramma perché aveva notato delle particolarità nei miei movimenti, ma, ovviamente, dall’esame non è risultato nulla. Avendo un fratello più grande di 4 anni, mia mamma notava ancora di più le differenze tra il mio modo di camminare e quello di Christopher, mio fratello; infatti i primi dieci anni della mia vita entravo e uscivo dagli ospedali per cercare di capire come mai mi muovevo in quel modo strano, come mai cadevo, come mai correvo a gambe larghe.
Mia mamma raccontava ai dottori ciò che vedeva, ma loro l’hanno sempre presa per scema, dicevano che era una visionaria, alcuni l’hanno incolpata di essere troppo apprensiva e di tenermi sotto una campana di vetro. Tuttavia mi hanno fatto fare diversi esami diagnostici: tac, risonanza magnetica, elettroencefalogramma da sveglia e da addormentata, esame del cammino, visite da ortopedici, neurologi, fisiatri, da una che ancora adesso non so quale fosse stata la sua specializzazione, so solo che mi ha toccato i piedi per un po’ e poi mi ha detto di non mangiare polifosfati; poi sono stata ancora da una dottoressa ma ricordo solo qualche frammento, so che mi ha fatto sdraiare chiudendo gli occhi e mi chiedeva che colori vedevo.
Naturalmente tutti questi approcci non hanno portato alcuna diagnosi, per cui mia mamma continuava a prendersi botte di paranoica e io peggioravo; mi sono rotta la caviglia tre volte, iniziavano le prese in giro dei compagni alle elementari.
E questi sono piccoli ricordi che ho io, ma chissà quanti altri episodi ricordano i miei genitori.
Poi nel 2001, su insistenza di mia mamma, mi hanno fatto l’esame del DNA, e c’è stata la diagnosi, ATASSIA DI FRIEDREICH.
Io non ho assistito a questa cruda comunicazione e non ho saputo il nome della malattia fino al 2009, i miei 18 anni.

Non sapevo da cosa ero affetta, ma chiaramente sapevo che qualcosa in me non andava. Ricordo le estati in campagna con i nonni, mamma e papà: le frequenti cadute tanto che ero simpaticamente soprannominata “sempreinterra”; ricordo che giocavo a calcio con mio fratello e amici e io facevo il portiere, forse perchè non c’era da correre; ricordo le “lotte” con le pistole ad acqua, io ero sempre la più bagnata perchè non riuscivo a scappare; ricordo una volta che sono caduta con una pila di piatti in mano mentre aiutavo la nonna ad apparecchiare, le ho fatto venire i capelli dritti dato che i miei genitori non c’erano e i nipoti erano sotto la responsabilità dei nonni; un’altra volta sono caduta nel bagno tagliandomi la mano su una piastrella scheggiata, così il nonno l’ha subito sostituita; ricordo che aspettavo con la nonna il rientro di chi andava per funghi, io non potevo andare, c’era troppo da camminare nel bosco pieno di buchi e dislivelli.

All’età di 14 anni iniziava il periodo in cui volevo più libertà, uscire da sola, iniziavo le superiori. Tante passeggiate a braccetto con Martina, la mia migliore amica. Fino ai 16 anni andavo a scuola da sola in autobus, camminavo sempre più da ubriaca, ma quanta fatica piuttosto che ammettere di avere bisogno d’aiuto.
Vedevo in me il peggioramento nel camminare, prima da sola, poi ogni tanto attaccata al muro, poi sempre di più, poi attaccata a un braccio, poi attaccata a due…
Non sapevo di avere l’atassia, iniziavo a domandarmi cosa avessi, perchè io dopo un po’ di strada mi stancavo? Perchè non riuscivo a fare gli esercizi di educazione fisica? Perchè non riuscivo a correre quando stava arrivando l’autobus? E soprattutto non sapevo cosa rispondere quando altri mi facevano queste domande. Io ero convinta che i medici ancora non l’avessero capito.
Un giorno ho chiesto a mia mamma cosa potevo rispondere e lei mi disse che alle persone piacciono le cose semplici, di dire “ho dei problemi ai muscoli” e questa diventò la mia risposta pronta ed effettivamente metteva fine alle domande.
Non so come spiegarlo, se ci penso ora mi chiedo come abbia fatto a non cercare con insistenza una causa a tutte quelle differenze che c’erano tra me e i miei coetanei, fatto sta che non ho indagato più di tanto.
A maggio 2009 andai a una premiazione di un concorso a cui avevano partecipato diverse scuole tra cui la mia, io avevo scritto una storia durante le ore di educazione fisica. Andai in autobus da sola fino a un certo punto, e poi insieme a una mia compagna di classe: un po’ mi tenevo a lei e un po’ avanzavo instabile.
Torno a casa, sempre in autobus, contenta e soddisfatta, con la coppa in mano penso già a dove sistemarla in modo che sia visibile e mentre giro per la casa cado, come non lo so ma so che mi sono strappata dietro al ginocchio: tanto dolore, ma mai quanto il nervoso.
Sono stata più di un mese a casa perché non potevo usare le stampelle, non riuscivo a saltellare su un piede solo; ho saltato l’ultimo mese di scuola e stavamo andando in bocca all’estate. Quella stagione tanto attesa dalle mie compagne di classe: finalmente si esce, si va a ballare, si va al mare.
Per me era diverso, finita la mia degenza dopo lo strappo, mi accorgevo sempre di più dei limiti che avevo: a ballare non potevo andare, stavo a malapena in piedi, come potevo ballare? In un posto buio oltretutto; andare al mare voleva dire camminare sulla sabbia dove sprofonda il piede e quindi bisogna alzarlo di più per non inciampare e tutto questo stando in equilibrio, oppure poggiare i piedi supersensibili sulle pietre che bruciano cercando di non cadere – in acqua era più semplice, il problema era arrivarci; uscire con gli amici voleva dire impegnare qualcuno a darmi braccetto, a raccogliermi il fazzoletto se mi cadeva, non correre per gioco, non fare troppa strada.
Diventava tutto più difficile, io ero triste, non ero di troppa compagnia. I primi “amici” iniziavano ad allontanarsi, a parte Martina, che mi è sempre stata vicino.
Dopo l’ennesima caduta, le troppe lacrime di rabbia e nervoso ho deciso di farmi accompagnare a scuola da mia mamma in macchina. Arrivavo a scuola e poi a casa senz’altro più riposata.

A novembre 2009, appena diventata maggiorenne, i miei genitori vengono a sapere di una sperimentazione che sarebbe partita a Milano e, dopo avermene parlato, siamo andati su per saperne di più e decidere se partecipare o meno. Avevo 18 anni e quella decisione spettava a me, come spettava me conoscere il nome della mia malattia.
Ricordo che chiesi alla dottoressa: “ma io che cos’ho?”, lei guardò mia mamma come chiederle il permesso e dopo aver ricevuto un cenno di consenso la dottoressa mi disse: “atassia di Friedreich”. Io accennai un sorriso e dissi: “eh…e cos’è?”. Lei iniziò a spiegarmelo, non ricordo se a quel tempo avevo capito e non saprei dire nemmeno cos’ho provato in quel momento. So cos’ho provato dopo e cosa continuo a provare: rabbia, tristezza, delusione, impotenza.

Sula scelta dei miei genitori di non dirmi il nome della malattia non mi sento di dire nulla, mi fido di loro e so che l’hanno fatto in buona fede. Non credo ci fosse una cosa giusta e una sbagliata, non so se sarebbe andata meglio o peggio, è andata così, va bene.

Nonostante sapessi già che qualcosa in me non andava, venire a conoscenza del nome della malattia è stato uno “scrollone”. Ci ho messo un po’ di tempo a guardare su internet, c’è sicuramente da spaventarsi. Quello che mi spaventa di più è la voce “senza cura”, più di tutte quelle voci che dicono “può portare problemi al cuore” o “insufficienza cardiaca” o “diabete”, è tipo un fine pena mai, un ergastolo. Per diverso tempo sono stata incastrata in quel pensiero, non c’era via d’uscita, c’era solo un lento e maledetto peggioramento. In quei momenti ci sono stati i miei genitori, mia nonna, kira, martina, maria; tutti gli altri che credevo amici non c’erano più.

Ho finito la scuola, ero diplomata, ma tremendamente depressa. Ricordo che dopo l’esame aspettavo l’uscita dei quadri anche se sapevo di averlo superato, i miei genitori avrebbero voluto darmi il regalo per la promozione dopo i quadri, ma hanno pensato di darmelo prima per tirarmi su il morale: era una vacanza al mare con mia mamma, mio fratello, la sua fidanzata e papà a lavorare.
Una bellissima idea, un bellissimo mare, un bellissimo residence ma si sa, i pensieri non vanno in vacanza. Avevo sempre in testa ciò che avrei potuto fare se non avessi avuto sto gene malato, cosa stavano facendo le mie coetanee mentre io stavo seduta il più possibile per non dare nell’occhio.

Nel 2011 ho iniziato la mia prima esperienza di lavoro, ho conosciuto persone fantastiche, adulte, mature: un mondo nuovo rispetto alla scuola, colleghi pronti ad aiutarmi senza compassione, pronti a trattarmi come chiunque, a scherzare anche sui miei scivoloni in una spirale di ironia. Trascorrevo serena le mie giornate in ufficio con i miei simpatici colleghi tra una caduta e l’altra che prendevo a ridere davanti a loro, ma quando ero in macchina con mia mamma toglievo la maschera e tutta la frustrazione della giornata usciva fuori. Quella frustrazione di avere quella malattia che mi fa cadere in bagno, che non mi fa prendere il cappuccino alle macchinette perchè se no lo rovescio, che non mi fa portare un faldone da una stanza all’altra perchè devo avere le mani libere per tenermi a qualunque cosa stabile su cui possa appoggiarmi, che mi fa arrivare per prima allo sportello in modo da non dover poi passare in mezzo alla gente.
Lì ho scoperto però di poter essere apprezzata dai ragazzi nonostante la mia inconfondibile camminata.


Dal 2011 non ho mai smesso di lavorare, cambiando uffici, avendo sempre qualcosa da fare, su cui impegnarmi, per cui essere soddisfatta.
Ormai non riuscivo più a fare quei piccoli passi che riuscivo a fare senza tenermi, dovevo sempre essere con qualcuno, prima attaccata obbligatoriamente a un braccio e poi a due.
Nel 2013 mi sono iscritta al corso triennale di counseling, una delle scelte più giuste che abbia mai fatto nella mia vita. Un percorso di consapevolezza che mi ha insegnato a capire chi sono, ad accettarmi, a riconoscermi come persona affetta da una malattia e non come malata: prima di tutto sono Tatiana, con il mio carattere, le mie idee, i miei valori, i miei interessi e poi c’è la malattia. È stato un lungo e intenso cammino, ma ora mi guardo indietro soddisfatta. La sofferenza non era e non è andata via, semplicemente ho iniziato ad accettare la mia condizione, è cambiato il mio pensiero. Accetto soprattutto il fatto di dover chiedere aiuto, di non farcela da sola.
Si stava avvicinando Natale e a me è sempre piaciuto fare i regali. Andare ai mercatini, alle fiere, nei centri commerciali risultava sempre più difficile: c’era da camminare, scale mobili, scaffali con le ruote su cui appoggiarmi diventava pericoloso. Quante scene imbarazzanti con la mia amica Valentina.
Mi decisi. Voglio la sedia con le ruote (ai tempi accettavo più questo termine), per diversi mesi la usai solo in luoghi dove c’era un po’ più da camminare e, purtroppo o per fortuna, mi resi conto che mi aiutava tanto, mi evitava spiacevoli cadute, sguardi compassionevoli, nervoso, ero più libera e autonoma, potevo guardare gli scaffali che volevo senza dover aspettare qualcuno che mi accompagnasse.
Dopo alcuni mesi mi decisi a utilizzarla anche per andare in giro con Martina in zona, dove abito io. C’è voluto un po’ di tempo perchè mi decidessi, mi faceva paura la reazione delle persone a questo cambiamento, ma come al solito la mia paura era inutile, non è successo e non è cambiato nulla. Anzi, forse ho colto cenni di approvazione, come se avessero pensato: “ce l’ha fatta sta masochista!! chissà perchè ci ha pensato solo adesso!”, e non posso certo dargli torto.
Credo che questo grande passo, il passaggio dai piedi instabili alle comode ruote, sia stato possibile, in parte, grazie al corso di counseling, agli insegnanti, alle tante lezioni sulla consapevolezza.
Avevo forse paura di dover dare spiegazioni, temevo mi domandassero “come mai sei sulla sedia?”. Che sciocca. Nessuno mi ha mai chiesto niente, e meno persone mi guardano. Mi sentivo molto più in imbarazzo in piedi, barcollante, insicura, gli occhi addosso, sguardi curiosi, interrogativi. Sulla sedia, a parte le eccezioni, passo inosservata, come una qualunque, rispondo agli sguardi, guardo negli occhi le persone, rispondo se c’è da rispondere, saluto alzando la testa senza il rischio di non sentire i piedi solo perchè li ho persi di vista.
La sedia mi è senz’altro utile e anche indispensabile, devo accettarlo e devo esserne consapevole.


Piano piano acquistavo sicurezza, realizzavo che era possibile vivere anche con l’atassia, e a rinforzare questo concetto ci ha pensato lui, Simone, il mio fidanzato. Lui che mi ha fatto salire l’autostima quanto le paranoie: posso davvero dargli quello di cui ha bisogno? A lui va bene rinunciare a fare quello che potrebbe fare se stesse con una ragazza sana? I suoi genitori non penseranno “ma con tutte le ragazze che ci sono proprio quella disabile “? Gli va bene spingermi sempre? Si merita di dovermi tirare su quando cado? Potrei andare avanti pagine e pagine, le preoccupazioni sono tante e la verità è che a tante domande non so rispondere. Lui mi tratta come una principessa e mi ha più volte rassicurato che tutto questo l’ha scelto lui. Resta il fatto che ha scelto una strada non troppo semplice.
Siamo stati a Pisa, Roma, Londra, Firenze, Parigi, al mare, facciamo lunghe passeggiate e incontriamo non poche difficoltà, ma, per ora, le abbiamo affrontate e superate insieme.
Stare sulla sedia a rotelle vuol dire guardare il mondo dal basso, non arrivare agli scaffali in alto, mettersi i pantaloni facendo molta fatica, non vedere al di là di un muretto alto, non riuscire a prendere il caffè sul bancone del bar, avere il sedere piatto, avere spesso mal di schiena, non andare in quei locali dove i tavolini sono alti. Non si possono fare tante cose, se ne possono fare altre.

Concludo dicendo che la mia vita non è stata, non è e non sarà (?) in discesa, ma sono ancora qua, progressi ne ho fatto combattendo come continuerò a fare; non smetto un attimo di sperare che un giorno possa essere libera di correre e continuerò a vivere e a ridere perché la vita è una.

Tatiana Bombardi

 

 

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