Bruno Brancher, dalla “Ligera” alla scrittura, passando attraverso rapine, carcere e tante botte

Trafficando nella libreria (che un giorno dovrò decidermi a ordinare) mi è tornato in mano un libro di Bruno Brancher, “Il potente a pezzi” (Milano Libri, 1979), l’unico suo libro rimastomi dopo una lunga serie di traslochi (alcuni, diciamo, affrettati…).

Parlare di Bruno non è facile e io, che pure ho avuto la fortuna di conoscerlo ed esserne amico, non penso di saperlo fare in maniera adeguata. Così, come faccio spesso, cedo la parola a chi meglio di me ha saputo farlo.

Prima di farlo, voglio però aggiungere una cosa che mi ha toccato profondamente. Sfogliando il libro ne è saltato fuori un altro, questo libricino di sole quattro pagine, copertina compresa.

Il mio è l’esemplare n. 3 di 21 stampate, con dedica. Bruno era così, con un “caratteraccio”, come apprenderete, ma una persona vera, generosa, unica. Adesso mi fermo qui e vi presento Bruno così come è stato visto e raccontato.

Iniziamo col video “Documentario biografico sulla vita di Bruno Brancher – ladro gentiluomo, scrittore e massimo esponente della “ligera” milanese –  di Tonia Cartolano e Omar Schillaci. (Per informazioni: presenza@unicatt.it”)

Dopo questo video, lascio la parola a Piero Colaprico, una delle ‘penne’ storiche di Repubblica, che si è cimentato, con successo, anche come scrittore di noir, alcuni dei quali insieme a Pietro Valpreda. Dico questo perché non è da tutti raccontare la Milano di una volta e Colaprico, nell’articolo scritto per il funerale di Bruno (30/11/2009), lo ha fatto secondo me in modo magistrale, come solo un giornalista e scrittore sa fare.

Milano dice addio a Bruno Brancher
fu la voce e il poeta degli anni ribelli
di Piero Colaprico

“Era impossibile, negli anni Settanta a Milano, essere uno studente e non conoscere Bruno Brancher. C´era una conferenza in biblioteca? Arrivava lui: la interrompeva e leggeva, cercando di non balbettare, una delle sue «ballate». Si presentava l´ultimo romanzo di un autore famoso? «BB» spuntava dal fondo, alzava la mano e senza attendere il permesso cominciava a dire la sua. «Ma chi è?». «Non lo conosci? È un poeta uscito di galera»

Bruno Brancher «ci» mancava già da molti anni, quasi dieci, da quando era stato male. Ma la sua è una storia che va raccontata dall’inizio. No, non da quando nella Milano del Dopoguerra era il figlio di una ragazza madre, cresciuto al Ticinese, tra soffitte e scantinati dove si muoveva come un topolino. E nemmeno dalle sue prime fughe di ladruncolo di biciclette, come quando si era «fatto», a suo dire, la bici di Fausto Coppi. Si possono anche saltare i resoconti delle sue rapine impossibili, negli anni dei Lutring e poi dei Vallanzasca, perché tartagliava e al gioielliere riusciva a dire al massimo «Ma-ma – mani in… in…» e si perdeva ogni volta. O delle sue spaccate, vetrine infrante per arraffare qualche cosa, che almeno non doveva dare spiegazioni.

Bruno e i suoi amati Navigli…

La vera storia di Brancher nasce in carcere. Un carcere dove si prendevano tante botte e dove lui, sottoproletario senza nessuno che gli mandasse i soldini da fuori, vede entrare i primi studenti, poi i terroristi, poi i professori, persone così diverse dal suo panorama di Porta Cicca. Lui si affeziona a loro, loro a lui, sono anni di rivolte e caos, Brancher riprende tantissime botte, anche «alla Pianosa», in vari super-carceri, finché finisce sui giornali: dopo una visita di Soccorso rosso molta gente comincia a scrivergli, a chiedergli come sta, e che tipo di vita è stata la sua. Bruno, faticando, sforzandosi, comincia a rispondere. E scocca la scintilla.

Le storie che Bruno aveva vissuto o sentito gli si gonfiano nel petto e lui, che a parlare non era «buono», infila una frase dietro l´altra, trova un ritmo, fa sentire che il Naviglio non è solo un canale, ma è un mondo. Nasce Disamori, un grandissimo libro di racconti. Davvero.

Un dio-protettore dei miserabili del Ticinese, il libraio e storico Primo Moroni, lo fa conoscere. E Bruno è rinato in quella Milano che ora ci manca, in una città che oggi porta le mutande firmate, ma allora aveva un cuore aperto, perdonava, correva, masticava, digeriva, sognava, una città non disumana. In quella città Bruno esce dal carcere ed è «scrittore».

Pare di sentirlo, quando raccontava il suo stupore per il successo, per quelle serate piene di gente che andava a discutere con lui di carcere e di «ligera», la vecchia mala senza cattiveria. C´è chi negli istituti di pena impara a fare borsette, chi a usare il computer, Bruno aveva imparato a narrare. Ma vivere di scrittura non è mai stato facile, non poteva esserlo nemmeno per lui, un autodidatta in molte cose. «Ragazzi, s-s-s-stasera va-va-vado in vi-vita», diceva. Con spietato candore da ex galeotto inanellava storie con studentesse universitarie in crisi: «”Ma tu mi trovi bella?”, la me dis. Ora, hai 23 anni, sei alta e bionda, hai pure la casa, vuoi che ti dica che sei un cesso?».

Prendeva premi, sfotteva Oreste Del Buono, litigava con Alda Merini e nel frattempo cercava di far sgorgare ancora quella sua vena da picaro aperta nel chiuso delle gabbia. «Se vuoi scrivere – diceva a quelli che andavano a chiedergli un consiglio – fallo subito. Quando hai la mia età, una giornata di sole, una donna o una birra ti spingono ad andare fuori, non a faticare al tavolino». Girava per una Milano che conosceva ciotolo per ciotolo. «Là trovo l´uva, là le ciliegie, sai quanti giardini ci sono…». E anche bar per bar, ma quelli «giusti», dove gli ex del movimento lo invitavano a sedere. Un giorno d´incredulità generale venne arrestato di nuovo: aveva accoltellato la sua giovane fidanzata, e tentato di uccidersi. A volte la vita sbagliata sa essere un richiamo potente.

Eppure ancora una volta trovò il modo di risorgere. L´ex ladro di biciclette, riammesso al lavoro esterno al carcere, diventò – siamo alla metà degli anni ´80 – il custode delle biciclette gialle che il Comune «prestava» ai milanesi per far diminuire il traffico. Poi riprese a scrivere. Un editore, che non ha mai voluto essere nominato, l´ha aiutato con un piccolo mensile. Il Comune gli aveva dato una casa popolare al Corvetto e anche – meritato – l´Ambrogino d´oro.

Ma Brancher, anno dopo anno, tra un attacco di cuore e una botta di malinconia, s´è andato perdendo. Una mattina s´è salvato a stento da un incendio che aveva appiccato in casa ed era andato in una casa di riposo, dove Gilberto Cereghini, un sindacalista cattolico, andava sempre a visitarlo: a leggergli qualche articolo, qualche pagina. Lui, talvolta, spalancava gli occhi azzurri e rideva, ed è bene così.”
(30 novembre 2009)

Ed ecco un ultimo racconto su/di Bruno, questa volta in veste di autore di un articolo sulla rivista “Musica 80” dal titolo, guarda caso, “Jail house rock”. Il brano musicale, che i più giovani abbinano probabilmente all’ultima scena del mitico “Blues Brothers”, è stato scritto in realtà  da Jerry Leiber e Mike Stoller e lanciata da Elvis Presley nel 1957, in contemporanea con l’omonimo film di cui Elvis era ovviamente il protagonista. Ringrazio l’autore del blog Tonyface da cui ho tratto questo brano dell’articolo di Bruno Brancher

“Il rock n roll scoppiò improvvisamente a Milano.
Beh non è che io voglia fare l’analisi della musica o cose così anche
perché politicamente non ci capisco un tubo, voglio dire che si ballava
e il suono era guerresco e gli istinti si scatenavano giustamente nelle
dovute direzioni.
Bello rubare avendo un bel ritmo che ti gira nella testa.
E la voce , nel ricordo, i gesti flessuosi di Elvis Presley e il piccolo
indiano Richard:
Tutti frutti baliamabalulembalimbembum, tutti frutti tuti frutti
e il piano frenetico di Lewis e l’allegria al pensiero del ritorno nelle
balere di Milano, al Branca, in via Jenner, all’Aretusa in via Santa
Tecla, al Pulverun , al K2, e la divisa da diverso, pantaloni
strettissimi sul culo e larghissimi sotto, alla marinara, maglietta con
il nome del preferito davanti o dietro, a volte davanti e dietro,
giacchettone nero attillato in pelle.

1966 Milano, Gerry e The Quelli con Teo al Santa Tecla (foto, Brutos.it)

E l’entrata: duri, truci: quelli di Porta Romana da una parte, gruppo
della Comasina dall’altra: in mezzo il circolo di quelli del Ticinese.
I più numerosi; quelli di Baggio che volevano sfidare tutti; un po’
riservati quelli di Sempione ma erano tutti figlioli di impiegati; poi
c’erano gli Ariosi e i Brianzoli; erano i più pericolosi, perché si
sentivano derisi e allora cercavano la rissa per poi anche menarsene
vanto al ritorno nelle brughiere.

Per loro era come cercarsi uno scalpo. Noi accettavamo la battaglia se
non c’era la provocavamo ad arte e poi, non contenti, buscate o date,
organizzavamo spedizioni nei loro feudi e foreste. I soliti inviti alla
fine di ogni rissa “neh balurd, fatti vedere a Garbagnate se hai il
coraggio”
Luci rosse e a volte candidi e accecanti abbagli in quelle balere.
Poi la musica cominciava e cominciavano i numeri dei più ganzi dei
rioni: con le loro ragazze, passi complicatissimi, già studiati con
furore e amore.
Al ricordo un’estasi per ciò che sapevo fare allora: un tormento per
quello che non so più fare ora. Tormento perché conosco i passi e le
variazioni più pazzesche del rock n roll, desiderio di fare e coscienza
di non poter fare….
CocaCola, aranciate, coca, gazzose.
Con la bocca smorfiavamo passaggi repentini, con il corpo
accompagnando suoni acidi e striduli a volte rimbombanti di note
basse.
Alla fine o a casa o in cerca di qualcosa da fare.
E si faceva.
A volte il fare terminava bruscamente nelle bracca dei poliziotti e
allora non sentivamo più tuti fruti, tuti fruti , ma il gracidio delle
radiotrasmittenti e le voci giocose allegre dei poliziotti che
rispondevano dalla Centrale: “Bravi bene ragazzi, portateli qui”…….
A Milano tutto fioriva a queltempo, gli animi erano allegri, gli occhi
splendevano convinti che il giorno sarebbe arrivato: “Vedrai vedrai,
qualcosa cambierà” canticchiavano sorridenti e misteriosi convinti i
ragazzi/e.
Le balere non sono più quelle di prima, sparite le bande di quartiere, i
luoghi si adeguano alle mode, qualche ragazzone blouson noir, qualche
ragazza avventurosa e ballano alla musica di micidiali suoni, quasi
simili una canzone o musica all’altra.


Non conoscono i passi del rock, seguono con il corpo anfetaminiche
cadenza, si dimenano fino alla spossatezza.
Immagini…..
Vennero i dieci anni di cui io, scusate ma è così, non ho voglia di
parlare.
Confusi, comunque.
L’altro ieri ricompare il rock n roll.
Tutto un’altra cosa, soprattutto i ragazzi/e.
Perbene, molto per bene.
A loro del rock piace soprattutto il “fatto culturale”.
Diciamo che sono i blouson noir della mamma.
Sono un abituale frequentatore di questi nuovi ritrovi: Chicote,
Puntorosso, Frizzi&Lazzi, Ancona.
A volte si andava d’accordo.
Però successe che al Chicote grande locale di via Plinio di grida e
spassi io volli una notte risentire Edith Piaf. Altri non vollero.
Erano vestiti in nero.
Uno giovane e glabro, le unghie rosicchiate mi disse “Molla tutto,
stronzo”.
Io insistevo per la Piaf.
Il molla tutto si trasformò in qualche banale insulto.
Niente di nuovo.
Cose ripetitive.
Gettai del whisky di marca buono e prezioso addosso ad un gestore di
locali alternativi….

 

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