Barbara Balzerani: “E’ straordinario come non venga formulato nessun interesse sulle reali cause della nascita e del perdurare della lotta armata”

Barbara Balzerani è una compagna capace di ripercorrere la sua esperienza umana e politica, che l’ha portata ai vertici delle Brigate Rosse, attraverso i suoi libri: Compagna luna (1998), La sirena delle cinque (2003), Perché io, perché non tu, (2009), Cronaca di un’attesa ( 2011) e Lascia che il mare entri (2014).

Non proverò neppure a tentare di definire, non dico recensire, i libri di Barbara, per i quali segnalo però una interessante recensione (peccato che chi ha titolato non abbia saputo resistere alla tentazione di parlare di terrorismo invece che di lotta armata) – che ho trovato su L’arco di Ulisse, blog di Oscar Nicodemo ospitato su Lettera 43 .

Mi interessa invece contribuire a diffondere – pur consapevole della short list di lettori – la traduzione in italiano dell’intervista a cura di Silvia De Bernardinis pubblicata sulla rivista brasiliana di storia “Mouro – Revista Marxista“.  Prima però voglio proporre la lettura della nota introduttiva della seconda edizione di Compagna Luna, scritta dalla stessa Barbara Balzerani:

“Queste pagine sono il racconto dell’inizio di un viaggio di ritorno tra le schegge di uno specchio andato in pezzi, riflessi di una vita frantumata. La fotografia di uno stato di solitudine per la scomparsa di un mondo di relazioni. Lo smarrimento per la perdita di orientamento in un territorio diventato estraneo. Una dichiarazione di amore testardo a difesa di una memoria partigiana. Il tentativo di riconnettere una storia collettiva attraverso le diverse stagioni di un’esistenza. Un giro di catena liberata dalla forza scardinante di domande pesanti come magli. Avevo tra le mani una storia ridotta a brandelli, piegata alla lettura della resa dei conti dopo la rivolta degli anni Settanta. Come raccontarla? I fatti, i percome e i perché di una pattuglia di scampati, zittiti dal coro cortigiano del vincitore. E, come sempre nelle sconfitte, incomparabili le ragioni del conflitto di fronte al potere che da sempre si amnistia da sé. Una partita truccata. Come pena accessoria per i vinti, la parola negata. Condanna non scritta a una galera impenetrabile. È capace di rimanere in gola a strozzare quella parola, dopo aver trovato alimento in ogni goccia di sangue, in ogni piega di carne. E può succedere che irrompa, trovando la via, per cercare contatto epidermico con chi subisce la stessa distorsione di senso e la stessa imposizione al silenzio. E capita che riesce a trovarlo, il contatto, su un terreno in cui non sono necessarie spiegazioni né ricostruzioni né giustificazioni, ma solo la forza del linguaggio comunicativo dei corpi che si riconoscono per contagio della stessa condivisione emotiva.”

E veniamo all’intervista a cura di Silvia De Bernardinis pubblicata sulla rivista brasiliana di storia “Mouro – Revista Marxista

D. Partiamo dal presente: come è stato possibile che nel giro di poco meno di due decenni un paese che ha vissuto uno dei più alti livelli di conflittualità sociale si ritrovi oggi senza più alcun riferimento? Vedi un nesso tra questo ed il modo in cui è stata liquidata e archiviata da parte dei vincitori la storia delle lotte degli anni Settanta?

R. Intanto bisogna ricordare che l’Italia è il paese che, solo per parlare del ‘900, ha vissuto una dittatura fascista durata 20 anni, un 40ennio di democrazia parlamentare a centralità democristiana e un altro 20ennio di berlusconismo. L’attuale governo di centro-sinistra è tenuto da un ex democristiano che ha completato l’opera di sterilizzare ogni segno di sinistra nel partito erede del Pci, forte del suo 42% alle ultime elezioni. Tutti sistemi di potere di destra che, nelle evidenti differenze, hanno goduto e godono di un non indifferente consenso di massa. Possiamo dire che la cultura politica dominante di questo paese sia più conservatrice che sovvertitrice. Non è un caso che a “sinistra” si riponga tanta fiducia nella magistratura, nella legalità e nella sicurezza, cavalli di battaglia per tutte le politiche “emergenziali” con cui gli “ex” comunisti si sono distinti. Il ventennio ‘60/’70, dopo la resistenza al nazifascismo e le rivolte contadine e operaie di inizio secolo, è stato quello più caratterizzato dal protagonismo di una sinistra di classe autonoma dai partiti e dai sindacati della sinistra tradizionali e molto più interessata al contesto rivoluzionario internazionale che alle asfittiche alchimie istituzionali interne.

Per esemplificare bisogna ricordare che le tre giornate di rivolta di P.za Statuto a Torino nel ’62 (vedi foto) hanno segnato la svolta nella storia del movimento operaio. In piazza, a battersi contro la polizia e contrastare l’intervento dissuasivo di PCI e CGIL, c’erano soprattutto giovani operai immigrati che pagarono con un migliaio di arresti e denunciati. Questi “piccoli gruppi di irresponsabili”, che molto avevano in comune con i “ragazzi con le magliette a strisce” che avevano incendiato Genova due anni prima, inaugurarono la stagione dell’esplosione conflittuale dell’operaio massa, su cui non riuscivano più ad avere potere di indirizzo e di controllo la sinistra parlamentare e sindacale. Da questo la conflittualità sociale ha tratto forza e ha raggiunto i livelli, la durata e il coinvolgimento di cui parli.

Fino a che la storia non ha presentato il conto e i paradigmi rivoluzionari novecenteschi hanno perso la forza e la credibilità di alternativa al capitalismo. Da quel momento l’eterno presente del “pensiero unico” ha spazzato via, insieme alla memoria, l’idea stessa della critica come intelligenza delle vicende del mondo e del conflitto come artefice della trasformazione sociale. Su tutto è calata la reiterata, smaccata e quotidiana menzogna come unica versione dei fatti ammessa, la pace sociale come valore indiscusso e l’avvicendarsi di “salvatori della patria” a cui delegare il destino di tutti e di ciascuno.

Prospero Gallinari e Mario Moretti

D. Storicamente la traiettoria delle BR si inserisce e appartiene alla storia delle lotte rivoluzionarie emerse durante il XX secolo, e nello specifico è strettamente legata alle trasformazioni, e alle contraddizioni, attraversate dalle società capitalistiche nella seconda metà del Novecento. Si è trattato del più grande movimento di guerriglia dell’Europa occidentale, tanto per l’adesione quanto per la durata. Nonostante la sconfitta e il riconoscimento dell’esaurimento di tale esperienza da parte dei suoi protagonisti, fino ad oggi rimane un movimento che non vede riconosciute le ragioni della sua nascita, della sua esistenza e della sua fine. A chi e a cosa serve ancora oggi questa negazione?

R. Serve a negare l’idea stessa della possibilità rivoluzionaria. Il dispositivo è semplice: chiunque ci abbia provato non solo è stato sconfitto e disconosciuto dalle “masse” ma, soprattutto, non ha agito autonomamente. Tutte le dicerie sulle infiltrazioni dei servizi segreti di ogni colore che avrebbero etero-diretto l’attività della nostra organizzazione è funzionale a questo elementare scopo: non si è trattato di un tentativo rivoluzionario ma di un piano reazionario antidemocratico. La costruzione mediatica di questo rozzo ma funzionale anticorpo si è dotata di una folta bibliografia, produzione cinematografica, e istituzionale (le varie Commissioni parlamentari) a cui, con pochissime eccezioni, si è inchinata l’intellighenzia nostrana, ansiosa di sanare il nostro impronunciabile reato: quello di aver dimostrato la vulnerabilità del potere ai suoi massimi livelli. E’ straordinario come non venga formulato nessun interesse sulle reali cause della nascita e del perdurare della lotta armata in questo paese e tutto si traduca in reiterati quanto sempre più deformati nessi e particolari torbidi. La menzogna eretta a sistema non ha neanche bisogno di essere dimostrata. Ma c’è un altro elemento importante per cui la nostra esperienza non viene consegnata alla storia e continua a essere trattata come cronaca, cioè funzionare come monito per il presente, come deterrente per chiunque oggi si ponga sul terreno dell’alternativa possibile all’esistente. Gli esempi sono clamorosi: dalla mattanza di Genova 2001 alle accuse di terrorismo per i noTav.

Barbara Balzerani e Renato Curcio, e dietro, Maurizio Iannelli


D. Sei entrata nelle BR nel 1975, dopo un periodo di militanza in Potere Operaio. Il tuo passaggio dalla militanza nella sinistra extraparlamentare alla lotta armata è stato un passo di un processo “naturale” o qualche evento in particolare ha influenzato questa scelta?

R. Alla fine dell’esperienza dei gruppi extraparlamentari la discussione sulla Lotta armata era diffusa e capillare nella sinistra rivoluzionaria. D’altra parte quello era stato un movimento che aveva rotto con la tradizione dei partiti e acquisito nella sua cultura politica la legittimità della pratica di forme di lotta violente, dell’illegalità e dell’uso delle armi. Le differenze stavano nelle diverse concezioni, per esemplificare insurrezionaliste o di guerriglia, e nelle modalità politico-organizzative: apparati militari di supporto all’attività legale o clandestinità. Ma che si dovesse alzare il livello dello scontro per reggere la controffensiva padronale non era messo in dubbio da nessuno. Anche perché in quegli anni la repressione dello Stato stava mostrando la sua faccia più nera nel tentativo di ricacciare indietro quello straordinario movimento che aveva rivoluzionato il modo di stare in fabbrica, nelle scuole, nelle strade, nelle carceri, nelle caserme e nelle relazioni sociali. Quel movimento rischiava di ripiegare sotto i colpi di un avversario che intendeva ripristinare i rapporti di forza favorevoli a riprendersi il terreno perduto, i pezzi di potere perduti. Arresti, licenziamenti politici, stragi, complotti di colpi di stato, compagni ammazzati, attacco alle conquiste e alle condizioni di vita, ne erano il corollario. Insieme all’opera costante di diffamazione e divisione di partiti e sindacati. In quella condizione anch’io stavo cercando una strada per andare avanti. Due sono stati gli eventi decisivi: il colpo di stato in Cile nel ‘73 e il sequestro del giudice Sossi l’anno successivo. Il primo aveva rafforzato la convinzione che la via pacifica al socialismo era impossibile, che la democrazia formale era solo la faccia presentabile di un potere criminale e il secondo aveva mostrato che era alla portata di un’organizzazione di operai attaccare, giudicare e condannare lo Stato, come premessa per altre libertà necessarie e finalmente possibili. No, decidere di entrare nelle Brigate Rosse non è stato un processo lineare ma uno strappo dovuto a un lungo percorso di gestazione fino all’imporsi dell’evidenza di dati di fatto.

10 dicembre 1973, le Brigate Rosse sequestrano il direttore della Fiat Ettore Amerio

D. La fabbrica è stata il luogo centrale del conflitto in quegli anni, caratterizzata da un protagonismo di tipo nuovo della classe operaia di fronte al moderatismo politico dei partiti e dei sindacati. E nelle fabbriche le BR sono cresciute. Qual era il clima che trovavate, la relazione con gli operai?

R. Si, la classe operaia in quegli anni era al livello più alto delle sue capacità di conquiste politiche e materiali. L’Italia era tra i paesi più industrializzati d’occidente e quindi la centralità di quello che succedeva in fabbrica rispetto alle lotte degli altri settori sociali era innegabile. Gli operai erano in gradi di bloccare il cuore del capitale, bloccandone il ciclo produttivo. L’autonomia operaia non era solo una forma organizzata ma una cultura politica che si era radicata contro l’ideologia del lavoro salariato da parte dei nuovi operai senza mestiere e senza tessere, per la maggior parte emigrati dalle regioni del sud. Questi nuovi operai scontavano lo sfruttamento brutale nei reparti, i magri salari e l’ostilità delle città del nord, senza essere contaminati dalla vocazione al compromesso della sinistra tradizionale. Erano incazzati e riuscirono a essere protagonisti del loro tempo. Si sono accorti in fretta che le azioni delle Br contro la gerarchia di fabbrica contribuivano a creare un clima di rapporti di forza a loro favorevoli. Diciamo che in quegli anni gli operai usarono la nostra presenza anche sul piano immediato della difesa dalla fatica e dalle angherie di capi e capetti. Conquistarono forza e con quella migliorarono le condizioni di esistenza. Non eravamo certo maggioritari ma il sostegno politico e materiale proveniente dalle fabbriche e dai quartieri proletari ci ha consentito di vivere e crescere per tutti i nostri anni. Un esempio: abbiamo fatto azioni militari fin dentro i reparti e i nostri compagni hanno potuto agire grazie al tacito consenso dei loro compagni di lavoro.

D. Esiste una tesi secondo la quale sarebbero esistite delle BR buone, quelle degli inizi, e delle BR cattive, quelle militariste, infiltrate, egemonizzate da Mario Moretti, e delle quali anche tu hai fatto parte. Una tesi che i fatti stessi smentiscono (valga su tutte la lettura del comunicato fatta da Curcio e Franceschini nell’aula del tribunale all’indomani dell’uccisione di Moro) e che forse è cresciuta nel quadro della “politica del pentitismo”. Piuttosto, le divisioni reali all’interno delle BR emergono dopo il sequestro Moro.

R. Questa versione addomesticata e completamente falsa fa parte della produzione dietrologica che tanta fortuna ha avuto nella ricostruzione ufficiale della nostra storia. Proprio per affermare un principio generale che “la rivoluzione è impossibile, quindi è inutile e dannoso provare a farla”, è nata e ha proliferato la teoria, mai provata da un solo fatto, del “chi c’è dietro”. Naturalmente i suoi esponenti più diligenti sono venuti dall’area PCI e dintorni, massimamente interessati a negare ogni connotato di classe alla nostra organizzazione. Naturalmente questo disegno si è perfezionato con l’innalzamento del livello di attacco da parte nostra. Se avessimo continuato sulla strada di un’endemica pratica armata (come altre organizzazioni facevano) tutto si sarebbe risolto ogni volta in un banale rito di riprovazione e condanna. Ma noi abbiamo attaccato frontalmente lo Stato e questo non poteva esserci perdonato. Tutto il fango buttato su Mario (un compagno che sta ancora in galera dal 1981, alla faccia dell’infiltrato!) oltre a essere una vigliaccata degna dello squallore di Franceschini (il duro durissimo che ha fatto armi e bagagli al momento della disfatta) ha il risultato ovvio di gettare un’ombra su tutta l’organizzazione. Si, i fatti smentiscono ma non occorre dimostrare nulla, basta continuare a reiterare la solita minestra ribollita, sempre più scipita e cotta con sciatteria, ma servita col massimo del clamore.

D. Nel 2005 un articolo pubblicato dalla rivista Gnosis, dell’Aisi, riconosceva, diversamente dalla sinistra istituzionale, la validità delle tesi presenti nel documento Stato Imperialista delle Multinazionali affermando che c’era ben poco delirio nell’analisi relativa alle trasformazioni in atto nella seconda metà degli anni Settanta tanto a livello internazionale come nello scenario italiano, e attribuisce al documento il merito di aver anticipato una serie di temi che poi sono diventati di assoluta attualità. Che ne pensi di questo riconoscimento?

R. Penso che un giorno, lontano forse, la storia delle Brigate Rosse uscirà dal pantano in cui è stata gettata e si potrà fare, fuori dalle contingenze del momento e documentandone validità ed errori. Quella dello Stato Imperialista delle Multinazionali è stata un’innegabile intuizione che abbiamo agito in solitaria, visto che tutti i centro studi della sinistra istituzionale parlavano ancora di Stato nazione. Questo non era un fatto secondario rispetto all’agire politico e alle indicazioni su cui formare una coscienza diffusa delle trasformazioni in atto. Il fatto poi che noi abbiamo tradotto questa analisi in un fatto avvenuto invece che in un processo in divenire, nulla toglie alla sua validità.

D. La componente femminile nelle BR, sin dall’inizio, è stata molto alta. Hai raccontato di un PM incredulo, durante il processo per il sequestro Moro, di fronte al fatto che potesse essere affidato a una donna un compito di alta complessità militare. Non solo, dopo l’arresto di Moretti, è toccata a te la gestione della scissione e in seguito dell’organizzazione delle BR Partito comunista combattente.

R. Si, le compagne sono state tante e impegnate in ruoli di direzione. La nostra è stata un’organizzazione politico-militare con una struttura piramidale ma questo non ha significato la sua burocratizzazione. A differenza di tutti i contesti politici che avevo frequentato precedentemente. Sia nel movimento che nei gruppi della sinistra extraparlamentare che ho conosciuto, la rivoluzione si fermava specie davanti ai comportamenti sessisti dei maschi. Quasi tutti i dirigenti (in prevalenza di sesso maschile!) detenevano una specie di ius primae noctis che esercitavano senza trovare molti ostacoli. E, siccome la guerra come l’amore si fa almeno in due, era un tipo di comportamento accettato anche da molte compagne. Altra caratteristica era l’esercizio da “angelo del ciclostile” al femminile, che la dice lunga sullo stato delle cose. Non c’è da meravigliarsi se molte militanti dei gruppi rivoluzionari si siano riconosciute nel movimento femminista. Nelle BR tutti questi retaggi ingloriosi io non li ho vissuti. Non voglio dire che le relazioni personali fossero idilliache, che non si vivessero contraddizioni e che avessimo scoperto la formula del perfetto comunista, ma, forse proprio in virtù della radicalità di scelte che quella vita implicava, non ho mai vissuto né discriminazioni né atteggiamenti machisti nei confronti delle compagne. Un/una combattente era tale indifferentemente se uomo o donna e così un o una dirigente.

D. La rivoluzione cinese da un lato e i movimenti di guerriglia dell’America Latina – in particolare i Tupamaros dai quali le BR hanno ripreso la struttura organizzativa – hanno influenzato le BR. Cosa ne pensi della Cina attuale e dell’America Latina, e in particolare di Mujica come presidente?

R. Domanda che necessiterebbe molto più spazio. In estrema sintesi penso che la Cina, la grande speranza di risoluzione delle deformazioni di quello che definivamo il “socialimperialismo” sovietico, da tempo non influenzi più nessuno. Oggi è la più grande potenza a capitalismo di stato, cioè a socialismo a intermittenza, che, da una parte, ha messo a nudo l’instabilità del processo di espansione del modello capitalistico su scala mondiale e, dall’altra, sta ripercorrendo la stessa strada a colpi di disuguaglianza, supersfruttamento della forza lavoro e sprezzo delle condizioni ambientali. L’immagine di Pechino soffocata dai fumi mi fa venire in mente il processo di accumulazione originaria in Inghilterra. Con la differenza che allora si era all’inizio dell’industrializzazione di un pugno di paesi occidentali, adesso alla resa dei conti, con paesi “emergenti”, non più solo mercati da sfruttare, che pesano tantissimo in termini di popolazione e di risorse necessarie. D’altro lato i paesi dell’America latina da molti anni rappresentano un “laboratorio di nuovo socialismo” che ha influenzato non poco i movimenti no global occidentali (indimenticabile Porto Alegre) e costruito una nuova prospettiva di libertà, attenzione ambientale e giustizia sociale, percorribili in autonomia dalle contrapposizioni interimperialiste attuali. Di Mujica penso tutto il bene possibile, per quello che è stato e per quello che è oggi.

D. In che momento è subentrata la consapevolezza di aver perso?

R. Ci sono stati più momenti. Le Br sono nate e si sono sviluppate nella fase dell’offensiva operaia. Di quelle lotte interpretavamo l’insito contenuto “rivoluzionario”, “di potere” e lo traducevamo nella nostra strategia politico militare. Il soggetto centrale su cui avevamo fondato il nostro programma era quella classe operaia. Nel momento in cui il vento è cambiato ed è iniziata la controffensiva padronale (i 61 licenziamenti politici e i 24mila cassa integrati alla Fiat fino all’accordo sulla scala mobile) anche per noi si è fatto tutto più difficile. L’”attacco al cuore dello Stato” era stato il passaggio obbligato proprio per affrontare l’innalzarsi dello scontro fuori dai cancelli delle fabbriche, terreno non più sufficiente per mantenere alta l’offensiva. Ma in tutta evidenza con il nostro principale referente di classe ricacciato nella difensiva, la lotta armata comunista veniva mutilata da uno dei suoi presupposti fondamentali. Paradossalmente negli anni successivi alla Campagna di primavera contro la Democrazia Cristiana, eravamo molto forti in termini numerici e militari ma molto deboli in termini politici. Questo si è riflesso sulla stessa tenuta organizzativa con diverse scissioni: la colonna milanese “Walter Alasia” e quella napoletana che diede vita al Partito Guerriglia. Scissioni che sono state il precipitato delle dure critiche dei nostri compagni in carcere, insofferenti delle nostre difficoltà ad affrontare la nuova fase di scontro, da loro male interpretata come favorevole all’organizzazione delle masse sul terreno della lotta armata.

Nell’82 sequestrammo il generale americano Dozier (foto a sinistra). Il terreno di “guerra alla guerra imperialista” ci era sembrato il migliore per rilanciare l’iniziativa su un terreno che riuscisse a dare ossigeno a un movimento sulla difensiva che aveva visto capitolare tutte le sue roccaforti. L’esito fu disastroso. Non solo il nostro prigioniero fu liberato ma venne anche inaugurata la stagione in cui l’uso della tortura da episodico divenne sistematico. Questo strumento di coercizione agì da rivelatore della nostra crisi politica perché, oltre al danno organizzativo dovuto alle informazioni estorte si aggiunse quello emblematico dei traditori. Vero e proprio terrore di Stato e discredito politico: una miscela mortale. Prendemmo in prestito dalla Lunga Marcia cinese la parola d’ordine della “Ritirata strategica”. Volevamo capire se la Lotta Armata avesse ancora un senso e una legittimità di esistenza. Forse quello è stato il momento che più ci ha avvicinati alla consapevolezza della sconfitta ma non abbiamo saputo coglierlo fino in fondo. Eravamo un’organizzazione combattente clandestina e non c’era concesso nulla se non consegnarci corpo e anima al nemico pronto ad accogliere un nostro atto di abiura. Non volendo fare questo ci siamo ingegnati a traguardare quella che continuavamo a considerare una crisi ciclica e non di chiusura di un’epoca come è apparso chiaro solo qualche anno dopo.

D. “Tra quei compagni, quasi sempre, avrei visto imporsi la legge non del maggior potere ma della maggiore autorevolezza. Coniugarsi la più grande responsabilità con l’assenza di qualunque privilegio. Con loro avrei imparato cosa significhi veramente non avere niente di proprio. A superare piccole e grandi meschinità nel dare e ricevere, come accade quando persino la propria incolumità fisica riposa nell’affidamento reciproco. Avrei vissuto rapporti di una intensità particolare, come accade quando l’altro è qualcosa di molto prezioso da preservare. Assaporato il gusto di uno scambio leale e trasparente basato sulla fiducia e nessun tornaconto, se non quello del guadagno reciproco tra persone ricche solo dell’esistenza dell’altro. E conosciuto il segno indelebile di una radicalità di scelte di vita di uomini e di donne, una radicalità che più che in ogni altra esperienza politica da me vissuta prima riusciva ad attenuare discriminazioni e subordinazioni, anche sessiste”. (cit. Compagna Luna). In poche righe hai sintetizzato gli slanci ideali di parte di una generazione ed il tentativo di concretizzarli. Cosa resta della lotta armata?

R. Resta il fallimento di un tentativo generoso di umanizzare una società divisa in classi. Quello di un gruppo di comunisti che azzardarono la liberazione dalla schiavitù del lavoro salariato e dal dio mercato, rendendo realistica un’utopia. Non abbiamo vinto, non potevamo, adesso è molto più chiaro, ma averci provato forse ha lasciato qualche strumento in più per affrontare le lotte future. Il nemico non è invincibile, anche se spesso può sembrarlo e non lo si batte mai una volta per tutte.

D. Dal 2011 sei definitivamente libera, dopo 21 anni di carcere e 5 di libertà condizionale, preceduti da circa 10 anni di clandestinità. La scrittura sembra aver assunto un ruolo importante, forse il principale nella tua vita. Qual è la tua “normalità” oggi?

R. Rintracciare una mappa percorribile. La carcerazione è stata soprattutto un distacco dalle vicende del mondo. Lì dentro si vive di riflessi, di idee non verificabili, di rappresentazioni prive di corpo e del suo sapere esperenziale. In un’epoca che va così veloce come l’attuale 10, 20 anni di carcere cancellano ogni capacità di accordarsi alla lunghezza d’onda della comunicazione comune. E’ come se, al risveglio da un lungo sonno, non si fosse in possesso dell’antidoto al veleno dello spaesamento che ciascuno, in stato di libertà, può ingoiare goccia dopo goccia, fino a immunizzarsene. Quando succede bisogna riprendere le misure, allontanarsi dalla prospettiva breve, ammortizzare la chiacchiera e la menzogna in cui ci si ritrova immersi. Per me la scrittura è stata ed è questo: terapeutica, confidente, includente, riparatrice. Come i fili tessuti ad arte di Maria Lai, capace di rimettere insieme strappi e lacerazioni antiche, ancora dolorosamente aperte. Per far questo bisogna cercare lì dove la storia del mondo non è quella scritta sui libri e ripetuta come verità da alti scranni del potere sulla parola, ma nelle testimonianze che il passaggio umano ha lasciato sulla materia, sulla memoria tramandata, sulle mani segnate dalla fatica, sulle storie di chi la Storia la fa e la subisce per intero. Questa è la mia “normalità”. Seguire le tracce di questo cammino per darmi qualche risposta e riuscire ad allentare la morsa del respiro.

D. Un giornalista e militante dei montoneros, Rodolfo Walsh, ucciso durante l’ultima dittatura argentina, diceva che le classi dominanti hanno sempre cercato di fare in modo che i lavoratori non avessero storia: “Ogni lotta deve cominciare di nuovo, separata dalle lotte anteriori, l’esperienza collettiva si perde, le lezioni si dimenticano. La storia appare così come proprietà privata, i cui padroni sono gli stessi padroni di tutte le altre cose”. Se ti va di commentare…

R. Non avrei saputo dirlo meglio…
Grazie! 

Comments are closed.