Libri da recuperare: “L’orda d’oro” di Nanni Balestrini e Primo Moroni
Il trenta marzo 1998 Primo Moroni, nato a Milano nel 1936, ci lasciava, sconfitto da un cancro contro cui pure aveva provato a combattere. Ma se c’è una persona di cui ha senso dire che vive nei nostri cuori e nelle cose importanti che ha fatto, di cui la libreria Calusca è forse la più grande, questo è Primo Moroni.
Come giustamente ricordano compagne e compagni che si sono assunti l’onere, e l’onore di creare e portare avanti l’Archivio Primo Moroni, “I molti che l’hanno conosciuto possono dirlo: Primo Moroni ha sempre dialogato con chi andava in Calusca per libri e riviste, per portarvi le proprie edizioni, incontrarsi e discutere con altri compagni, o farsi “raccontare” da lui il “com’è andata”. Nel corso fluido della narrazione, cercando tra la massa di materiali stipati dietro il bancone, forse caotica ma ben disegnata nella sua mappa mentale, Primo vi attingeva immancabilmente l’opuscolo, il foglio volante, il libro “giusto”, a sostegno del suo argomento o utile all’interlocutore….”
Prima di farmi prendere la mano dalla commozione, e da un po’ di nostalgia, lo ammetto, vengo all’oggetto di questo articolo: “L’orda d’oro“, libro frutto del lavoro di due grandi compagni, Primo Moroni, appunto, e Nanni Balestrini, che a sua volta ci ha lasciati nel maggio dello scorso anno. Proporre questo testo, invitando chi non l’avesse fatto a leggere il libro, è il mio modo di ricordare Primo Moroni, un grande compagno che ho avuto la fortuna di conoscere e frequentare, condividendo con lui, tra l’altro, l’esperienza del Coordinamento dei Comitati Contro la Repressione.
La prefazione che segue è quella dell’edizione del 1977, Feltrinelli Editore, curata da Sergio Bianchi, di cui in coda trovate una nota.
PREFAZIONE ALLA NUOVA EDIZIONE
Spartiacque di questa separazione sarebbe stata, secondo queste interpretazioni, la questione dell’uso della violenza. Una banalità in sé, perché un conflitto durato almeno dieci anni e che aveva coinvolto centinaia di migliaia di soggetti sociali non poteva essere ridotto nell’ambito angusto del supposto giudizio etico da dare sulle forme di lotta. Ovvio che la “querelle” era del tutto funzionale a confermare il riciclaggio istituzionale di coloro che la conducevano e, ragione non meno efficace, funzionale a separare i destini di alcuni da quello di coloro che ancora a centinaia giacevano nelle carceri della Prima repubblica. In realtà a partire dalla fine degli anni settanta è stato messo in opera in Italia un gigantesco meccanismo di falsificazione della storia di quel decennio, che nella desolante definizione di “Anni di piombo” trovava la sua sintesi linguistica. E se l’occultamento e la falsificazione hanno avuto nel P.C.I. di Enrico Berlinguer il motore principale e il braccio giudiziario, gli ex “dirigenti” dei “gruppi extraparlamentari non sono stati da meno nella loro ansia di negare e separare il loro passato dagli interessi del presente. Ed è con questi sentimenti che ci siamo messi a scrivere “L’Orda d’oro”: un testo sui “movimenti” degli anni sessanta e settanta che fosse il più possibile fedele alla complessità espressa da quella ondata rivoluzionaria. Ovviamente questo progetto non voleva dire che noi avremmo tentato di essere, come si usa dire, “obiettivi”, cosa pressoché impossibile, ma che il nostro essere “di parte” avrebbe significato lo stare criticamente e generosamente a fianco e dentro la storia dei “movimenti”, contro il potere costituito, le versioni della storia istituzionali e neoistituzionali e le loro falsificazioni. La nostra difficile e desiderata imparzialità sarebbe stata quindi relativa al progetto-intenzione di voler “raccontare” la storia di quei conflitti, senza privilegiare l’una o l’altra delle infinite sfaccettature ideologiche e organizzative prodotte dai “movimenti extraistituzionali” di quel periodo storico. Tutto questo significava confrontarsi con un autentico labirinto, con un laboratorio politico dentro il quale, e per necessità “storica”, erano confluiti i rivoli e le correnti principali dei movimenti rivoluzionari ortodossi o eretici dell’ultimo secolo. Abbiamo così cominciato a costruire tutta una serie di “indici”, di possibili “scalette” per trovare una metodologia che desse conto, passo per passo, dell’origine e dello svilupparsi delle molteplici “anime” delle componenti interne del movimento e del conflitto, che lo aveva opposto non solo all’organizzazione capitalistica dello stato e del lavoro, ma anche ai partiti storici della sinistra. Il libro è stato scritto in quattro/cinque mesi prima a Roma e poi ospiti di Barbara e Sergio Bologna, a Milano. Abbiamo riempito una stanza di decine di libri, oramai fuori commercio, prodotti negli anni settanta, di centinaia di riviste e documenti provenienti dall’archivio storico della Libreria Calusca o dalle biblioteche personali di compagni. Abbiamo parlato per mattinate intere con compagni che poi avrebbero dato contributi significativi al testo definitivo (Giairo Daghini, Franco Berardi, Letizia Paolozzi eccetera).
Per un mese non abbiamo scritto una riga, ma lentamente siamo riusciti a enucleare alcune linee forti, all’interno delle quali far “viaggiare” la narrazione e selezionare l’enorme massa di materiali a carattere documentario. Abbiamo anche delimitato la vicenda dentro un preciso spazio cronologico (dal luglio 1960 al dicembre 1977). Ci siamo rapidamente resi conto che non era possibile un taglio storico approfondito (in realtà nessuno di noi è propriamente uno “storico”) supportato dai documenti (solo con i documenti per così dire “indispensabili” ne sarebbe sortito un volume di circa mille pagine) e che era preferibile tenersi a metà strada tra la “oral history” e il racconto diretto, supportato da documenti e testimonianze particolarmente significativi dei passaggi cruciali da una fase all’altra. Sostanzialmente più che a una storia complessiva ed esaustiva – che rimane comunque da fare – abbiamo pensato di fornire ai lettori, e soprattutto a quelli più giovani, un affresco sufficientemente vasto e semplice di quella straordinaria rivolta esistenziale e politica. Un affresco che però contenesse al suo interno una filigrana interpretativa delle motivazioni che avevano mosso prima la protesta e poi la ribellione. Da un lato quindi uno strumento di lavoro, una bussola per muoversi nel labirinto; dall’altro le contraddizioni irrisolte che avevano così pesantemente inciso sugli esiti storici essendone nel contempo un “motore” indispensabile.
I movimenti degli anni settanta sono stati molto probabilmente l’ultimo grande “bang” di una storia di rivolte iniziate con la stessa nascita del capitalismo moderno. Dentro la storia e le sue contraddizioni hanno contribuito a portare a termine la parabola alta e definitiva del modello fordista-taylorista con tutta la sua intelligenza sociale e politica. Hanno dimostrato che quel modello era, per la maggior parte, sostanzialmente da “buttare”, scardinandone dall’interno i meccanismi più che sperimentati. Da quel conflitto l’assetto politico-economico italiano ne è uscito sconvolto in maniera irreversibile e la decadenza del “sistema dei partiti” (compresi quelli di sinistra) verificatasi alla fine degli anni ottanta non è che l’onda lunga di quel conflitto. La tragedia del sindacato e del P.C.I. sta proprio nel non aver compreso e recepito la straordinaria carica innovativa di quell’ondata rivoluzionaria: l’hanno invece duramente repressa alleandosi con il capitale oligarchico e con i corpi repressivi dello stato e così facendo hanno sostanzialmente suicidato anche se stessi. La ristrutturazione del sistema produttivo era probabilmente e comunque un’esigenza storica dell’organizzazione capitalistica, una modifica profonda del modello keynesiano-fordista-taylorista, un’esigenza strutturale del capitalismo internazionale; ma ciò non poteva e non doveva significare necessariamente l’accettazione passiva del “piano del capitale” così come si stava evidenziando. E se è vero che i “movimenti” hanno dato un contributo determinante nel portare a conclusione e nel rendere impraticabile il modello di comando del ciclo capitalistico degli ultimi cinquant’anni, non si può non sottolineare che la sinistra istituzionale ha accettato passivamente e delegato al capitale stesso il governo delle trasformazioni produttive e sociali. In realtà la pratica della ”emergenza” divenne una vera e propria forma di governo nel corso di tutti gli anni ottanta. E la logica dell’emergenza ha definitivamente disarticolato e distrutto l’impianto democratico della Prima repubblica travolgendo in questo processo buona parte delle dinamiche democratiche degli ultimi decenni della storia repubblicana. Tutto il “sistema dei partiti” ha sostanzialmente contribuito al funzionamento di questa distorta forma di governo delegando alla magistratura enormi poteri giudiziari e discrezionali, elaborando una legislazione “speciale” che avrebbe dovuto avere una funzione transitoria e che invece è stata trasferita nel corpo delle leggi “normali”, costruendo decine di “carceri speciali” con trattamento “differenziato”, governato continuamente per “decreti” e frequentemente in stridente contrasto con i principi della Costituzione. Per fare ciò si è ricorsi ogni volta ad agitare un supposto “pericolo per la democrazia” di volta in volta individuato nel “terrorismo”, nella criminalità organizzata o in altri fenomeni sociali che mai, in ogni caso, hanno rappresentato un’autentica minaccia per il quadro democratico.
Che questo percorso delle trasformazioni istituzionali fosse il riscontro speculare del mutato panorama produttivo, che la violenta modifica dello “stato di diritto” sia stata una necessità intrinseca delle esigenze del “nuovo capitalismo”, appare abbastanza evidente e non è questo il luogo per tentarne un’analisi approfondita, ma occorre osservare che il violento conflitto italiano con il suo produrre migliaia e migliaia di inquisiti e carcerati, con le decine e decine di morti (dall’una e dall’altra parte) che l’hanno drammaticamente segnato, contiene in sé buona parte delle spiegazioni e delle motivazioni profonde utili per comprendere l’attuale quadro politico. Molti nel mondo occidentale pensano, a ragione, che il caso italiano sia uno dei laboratori sociali e produttivi più rilevanti per decifrare il passaggio epocale da una fase del capitalismo a un’altra. La nuova fase è persino difficile da definire. C’è chi la definisce genericamente postfordista, chi “toyotista”, chi semplicemente postindustriale. Gli anni ottanta appena conclusi sono stati un periodo oscuro e tormentato del paese Italia. Molte sono state le mistificazioni e le ideologie adatte a occultare i processi reali (fra tutte “il pensiero debole”, le pagliacciate del “nuovo rinascimento”, l’Italia come grande paese industriale eccetera). In realtà sono stati anni in cui il capitale a livello nazionale e internazionale si ristrutturava e operava un profondo mutamento interno da molti definito come un’autentica ”rivoluzione”. Intorno a questi processi “alti” il grande ciclo dell’eroina, il dilatarsi del “capitale illecito”, la distruzione delle soggettività, le generose e drammatiche risposte delle controculture giovanili metropolitane e, infine, gli operai chiusi nelle fabbriche, impotenti e attanagliati dall’angoscia per il proprio futuro. Durante un’inchiesta (1985-1986) ricordo la frase esagerata, ma significativa, di un lavoratore anziano: “Siamo come gli ebrei; ora ci aspetta la ‘soluzione finale'”. A quella inchiesta mai pubblicata, avremmo voluto dare il titolo “La paura operaia”. La paura, infatti, sembrava essere la tonalità emotiva dominante, la “Stimmung” prevalente tra quei lavoratori che si vivevano come un gruppo di naufraghi. Il loro orizzonte era pesantemente occupato dal problema della droga, di cui quasi tutti, sorprendentemente, mostravano di avere avuto esperienza diretta (ovviamente tra i più giovani) o indiretta per il tramite di parenti e conoscenti (ciò anche a sfatare le banalità che riconducono il problema droga esclusivamente alle fasce marginali giovanili). (ndr. Quella che segue è una trasmissione di Radio Onda d’urto, nella quale trovate anche interventi di Sergio Bologna, Tiziana Villani, Sandrone Dazieri, Frank Cimini, Marco Philopat, Tommaso Spazzali, Paolo Cox18 ).
L’immagine dell’ambiente di lavoro appariva dominata dall’irruzione dell’innovazione tecnologica, percepita nella sua brutale quanto reale valenza di sostitutrice del lavoro umano. Alla luce odierna molte delle nostre analisi di allora appaiono in parte limitate perché, se pure avevano colto che era in corso una “rivoluzione interna” del sistema politico, forse non avevano colto appieno che quella era una necessità intrinseca della sfera della produzione: non venne compreso fino in fondo che stava avvenendo un’autentica svolta epocale nelle strategie complessive del capitalismo maturo. Ciò a partire, ad esempio, dal concetto di “sconfitta operaia” che indubbiamente ci fu, ma che era la conseguenza di più profonde implicazioni e che così ridotta finiva per cogliere esclusivamente la dimensione politica di quello che, in realtà, prima di tutto, era e rimane un gigantesco processo di trasformazione sociale indotto puramente e semplicemente dalla necessità di cambiare in profondità il modo di produrre. Una necessità che nel caso italiano interveniva con un considerevole ritardo se rapportata ad altre aree economiche capitalistiche, e il ritardo era stato causato principalmente dalla capacità conflittuale e dalla maturità raggiunte sia dai movimenti antagonisti sia, soprattutto, dalla forza autonoma e organizzativa del corpo centrale della classe operaia. In questo senso diventa più comprensibile che la mutazione in Italia abbia assunto contorni molto più drammatici che altrove e che per realizzarsi “dovesse far fuori” sia i movimenti antagonisti che la stessa centralità operaia.Oggi in Italia lo storico e difettoso “sistema dei partiti” è andato letteralmente in pezzi e tutte quelle forze che avrebbero potuto opporsi a questa miserabile deriva istituzionale sono state disperse e represse nel corso dell’ultimo decennio. La sinistra istituzionale è priva di un qualsiasi programma politico credibile che sia all’altezza di interpretare il profondo sconvolgimento dei processi materiali. Nuove e ambigue “forme di rappresentanza” si sono affacciate alla scena politica, ma il grande giacimento minerario dei movimenti degli anni settanta appare disperso e cancellato. In questo quadro il nostro libro aspira a essere uno strumento della “mémoire”. E poi, citando un autore che peraltro non amo, non è forse vero che “la lotta degli uomini contro il potere è anche la lotta della memoria contro l’oblio”.
di Sergio Bianchi.
La prima edizione di questo libro risale a dieci anni fa. Esso andò velocemente esaurito e non venne più ristampato. Continuò comunque a circolare in fotocopie e, negli ultimi anni, ampi stralci sono stati diffusi anche tramite piccole e grandi reti telematiche. Nei dieci anni passati sono intervenute, sul piano internazionale e nazionale, trasformazioni epocali che gli autori e i collaboratori di questo libro hanno saputo allora, seppure in maniera approssimativa, intuire e annunciare con largo anticipo. E’ nella dimostrata capacità di lungimiranza e nel metodo dell’indagine che risiede l’attualità della ricostruzione storica di un ciclo di lotte di classe. Quello che ha accompagnato l’esaurirsi della società fondata sull’impianto di produzione capitalistica “fordista”. Una fase storica densa di protagonismo conflittuale di massa si è risolta in un riordino complessivo di tutta la società entro nuovi paradigmi produttivi e culturali. Un salto storico ormai completamente consumato ma ancora incapace di leggersi, di comprendersi. In questa seconda edizione abbiamo cercato di arricchire l’approfondimento teorico e testimoniale sugli snodi principali delle trasformazioni in gioco, principalmente quella della produzione e dello scontro di interessi attorno alle sue modalità e finalità.In questo senso ci è sembrato utile inserire testi di Paolo Virno e Sergio Bologna, riferiti alla stagione delle lotte operaie del biennio 1968-69. Sul piano del dibattito teorico interno al movimento abbiamo inserito una nota di Sandro Mancini relativa alla scissione intervenuta agli inizi degli anni sessanta nell’esperienza della madre di tutte le riviste operaiste, “Quaderni Rossi”; l’intervento di Lucio Castellano e un altro di alcuni militanti politici dell’area veneta sulla specificità della genesi, dello sviluppo e della crisi di quell’area teorico-militante denominata Autonomia operaia; un contributo di Lanfranco Caminiti sul movimento ’77 nel Sud Italia. Riguardo l’approfondimento conoscitivo sulla storia e i percorsi delle aggregazioni politiche rivoluzionarie degli anni settanta ci siamo avvalsi di alcune schede realizzate da Andrea Colombo. Sugli influssi culturali che negli anni sessanta hanno inciso nella caratterizzazione dei movimenti abbiamo dato la parola a Bruno Cartosio e Cesare Bermani; il primo tratta la comunicazione in Italia dell’esperienza delle lotte degli afroamericani, il secondo la straordinaria esperienza del Nuovo canzoniere italiano e, più in generale, dell’impegno militante nella diffusione della musica popolare. Paolo Virno contribuisce anche con una breve ma incisiva sintesi dei principali eventi storici del nostro Paese nel corso dei decenni ottanta e novanta. Nell’appendice al libro, Rossana Rossanda commenta l’incapacità dell’attuale ceto politico italiano di dare soluzione agli strascichi emergenziali seguiti agli esiti più drammatici del conflitto di classe ventennale trattato da questo libro. Lasciando ancora irrisolta una prospettiva di libertà per centinaia di militanti che di quel movimento furono protagonisti.