Marco Sommariva, letteratura territorio della libertà

La pagina Facebook di Genova antifascista propone in questi giorni alcune testimonianze a partire dall’emergenza del covid 19. Una di queste porta la firma di Marco Sommariva , caro amico e compagno libertario e scrittore che io apprezzo molto. Ho conosciuto Marco molti anni fa, direi una ventina, in maniera abbastanza casuale. Ero a Milano nello studio di una radio privata dove un altro carissimo amico e compagno libertario, Alessio Lega, cantautore di grande spessore e impegno, era impegnato in un’ intervento. Tra le varie pubblicazioni nell’anticamera mi cade l’occhio su un libricino dal titolo “Ho ucciso Capossela – Storia d’amore e d’anarchia”. Lo sfoglio, mi appassiona e lo prelevo e all’indomani mi attacco al telefono e alla fine delle mie ricerche  lo trovo; lo chiamo e facciamo una lunga chiacchierata: da allora siamo grandi amici e io seguo con piacere la sua crescita come scrittore, oltre alla sua attività di divulgatore dell’antifascismo nelle scuole, oltre che nei suoi libri.

L’ultimo libro di Marco Sommariva ha un titolo molto esplicito,  “Sbirri” e, come scrive Checchino Antonini, – giornalista-militante, a cui si deve, tra le altre cose, l’aver rivelato la drammatica vicenda di Stefano Aldrovandi, ” la ricerca di Sommariva, distillata dalla lettura di 127 romanzi, dà conto di come nella letteratura, da un secolo e mezzo, alberghino anche i germi della controinformazione, dell’inchiesta sociale. Perché la letteratura è il territorio della libertà, se ne può fregare delle trappole delle leggi sulla diffamazione, cucite su misura di chi ha i manganelli dalla parte del manico (ma spesso li impugna al contrario perché fanno più male). Da quando Jack London scrisse “Il vagabondo delle stelle” (Adelphi, 1915) – «Rifletteteci per un momento. Pensate al lavoro minorile, alla corruzione che dilaga nella polizia e nella politica, pensate ai cibi adulterati, alle figlie della povera gente, che sono delle vere e proprie schiave» – è trascorso oltre un secolo, ma potrebbe essere stato scritto cento anni dopo e forse fra cent’anni. Quando nelle strade di Parigi rimbomba lo slogan “tout le monde déteste la police”, come non pensare a Friedrich Dürrenmatt che sessant’anni prima osservò nel “Il giudice e il suo boia” (Adelphi, 1952), che «gli scrittori non hanno mai amato i poliziotti». E allora che la ricerca di queste tracce continui dentro e fuori i territori dell’immaginario. Perché il poeta sei tu che leggi.”

Trovo significativo che nella quarta di copertina sia menzionata anche ACAD (Associazione Contro gli Abusi in Divisa) creata nel 2014 per supportare chi ha subito abusi da parte delle forze dell’ordine, gestendo anche il numero verde 800.58.86.05

Ed ecco la sua Testimonianza

Marco Sommariva

Testimonianza n. 3. Alcune riflessioni che vengono dalla letteratura.

Mi è stato chiesto un breve scritto su come sta cambiando il mondo del lavoro al tempo del Covid-19 e su come sta cambiando la nostra vita professionale. Probabilmente farò la fine che feci nell’82 all’esame di maturità, quando andai fuori tema e presi 3+: 3 perché, appunto, fuori tema; “più” perché, comunque, era ben scritto. Chiedo scusa se non elencherò le differenze tra il mio mondo del lavoro prima e dopo l’avvento del coronavirus, e domando venia anche perché mi sa che non sarò neppure breve. Vi propongo, invece, una manciata di passaggi di scrittori e pensatori che avevano visto lontano e che, come spesso succede, non sono stati ascoltati, o meglio, non sono stati letti.
Inizio con qualcosa di Huxley, da “Ritorno al mondo nuovo”, datato 1958: “La malattia intensifica la suggestionabilità. Infatti nei secoli passati le corsie degli ospedali furono teatro di innumerevoli conversioni religiose. Il dittatore scientifico di domani riempirà gli ospedali di altoparlanti e i cuscini di microfoni. Ventiquattro ore al giorno trasmetteranno persuasione in scatola; i pazienti più importanti saranno visitati da tecnici specializzati nella salvezza politica delle anime e nella mutazione dei cervelli, allo stesso modo che in passato i loro predecessori ricevevano le visite dei preti, delle monache e dei laici devoti”.
Anche Zerzan ha qualcosa da dire sulla malattia, nel suo “Future primitive and other essays” del 1994 scrive: “Prima della civilizzazione la malattia praticamente non esisteva. Come poteva essere altrimenti? Da dove provengono le malattie degenerative e infettive, i malesseri emotivi e tutti gli altri disturbi se non dal lavoro, dalla tossicità, dalla città, dall’estraniazione, dalla paura, dall’insoddisfazione, dall’intero tessuto di una realtà deteriorata e alienata? Distruggendone la fonte si sradicherà la sofferenza. I piccoli disturbi si potrebbero trattare con erbe e rimedi analoghi, senza parlare di una dieta basata su alimenti sani e non trattati”.
E allora a questo punto andiamo a leggere cosa riporta Vaneigem nel “Trattato del saper vivere” del 2006 su questa realtà deteriorata e alienata: “Eccoci al tempo degli orologi. L’imperativo economico converte ogni uomo in cronometro vivente, segno distintivo al polso. Ecco il tempo del lavoro, del progresso, del rendimento, il tempo di produzione, di consumo, di pianificazione; il tempo dello spettacolo, il tempo di un bacio, il tempo di un cliché, il tempo per ogni cosa (time is money). Il tempo-merce. Il tempo della sopravvivenza”.
Tempo del rendimento, scriveva Vaneigem; guardate cosa sosteneva Orwell sull’efficienza ne “La strada di Wigan Pier” (1937): “Tutto il progresso meccanico tende a una sempre maggiore efficienza: in ultima analisi, dunque, a un mondo in cui non avvengono errori. […] In un mondo dal quale il pericolo fisico fosse stato bandito – ed evidentemente il progresso meccanico tende a eliminare il pericolo – avrebbe il coraggio fisico qualche probabilità di sopravvivere? Potrebbe sopravvivere? E perché la forza fisica dovrebbe sopravvivere in un mondo dove non ci fosse più la necessità di lavorare con le braccia? Quanto a virtù quali la generosità, la fedeltà, ecc. in un mondo dove non avvenisse mai nulla di errato, sarebbero non solo irrilevanti, ma probabilmente inimmaginabili. Il fatto è che molte delle qualità che ammiriamo negli esseri umani possono funzionare soltanto in opposizione a qualche genere di disastro, dolore o difficoltà; ma la tendenza del progresso meccanico è di eliminare disastri, dolori, difficoltà”.
Eliminare disastri, dolori, difficoltà; quindi, uno “star meglio”. Su questo Ivan Illich ci fa notar una cosa nel suo saggio “La convivialità” (1973): “Una società impegnata nella corsa allo «star meglio» sente come una minaccia l’idea stessa di una qualsiasi limitazione del progresso. È così che l’individuo che non cambia oggetti o terapie conosce il rancore del fallimento e chi ne cambia scopre la vertigine della carenza. Ciò che ha lo nausea, e ciò che vuole avere lo fa soffrire.Il cambiamento accelerato produce su di lui gli stessi effetti che l’assuefazione a una droga: si prova, si ricomincia, ci si abitua, si crede di potersi controllare, ci si ammala, si crolla”.
Ma serve davvero correre, progredire illimitatamente, accelerare? È ancora Illich a offrirci un’osservazione che non sottovaluterei, in “Per una storia dei bisogni” (1977): “Nel Vietnam un esercito super-indu strializzato ha cercato di domare, senza riuscire a batterlo, un popolo che si muoveva alla velocità della bicicletta. La lezione dovrebbe esser chiara. […] Resta da vedere se i vietnamiti applicheranno all’economia di pace ciò che hanno imparato in guerra, se vorranno proteggere quei valori che hanno reso possi bile la loro vittoria. E’ ahimè probabile che, in nome, del progresso e di un maggiore impiego di energia, i vincitori finiscano per sconfiggere se stessi distruggendo quella strut tura equa, razionale e autonoma cui i bombardieri ameri cani li avevano costretti privandoli di combustibili, di motori e di strade”.
Sbaglierò, ma le letture in mio possesso mi dicono che i vincitori, i vietnamiti, non hanno applicato all’economia di pace ciò che hanno imparato in guerra. Pare che anche lì il progresso sia stato strumentalizzato dal potere; un po’ come scriveva Orwell nel suo “1984”, datato 1948: “Il potere consiste nell’infliggere la sofferenza e la mortificazione. Il potere consiste nel fare a pezzi i cervelli degli uomini e nel ricomporli in nuove forme e combinazioni di nostro gradimento. Riesci a vedere, ora, quale tipo di mondo stiamo creando? […] Un mondo di paura, di tradimenti e di torture, un mondo di gente che calpesta e di gente che è calpestata, un mondo che diventerà non meno, ma più spietato, man mano che si perfezionerà. Il progresso, nel nostro mondo, vorrà dire soltanto il progresso della sofferenza. […] Nel nostro mondo non vi saranno altri sentimenti che la paura, il furore, il trionfo, e l’automortificazione”.
E visto quanto – soprattutto in questo periodo – siamo mass-media-dipendenti, concludo con lo stesso testo con cui ho iniziato, “Ritorno al mondo nuovo” di Huxley: “Oltre che la radio, l’altoparlante, la cinepresa e la rotativa, i propagandisti d’oggi possono usare la televisione per trasmettere immagini e voce del loro cliente, registrare immagine e voce su rocchetti di nastro magnetico. Grazie al progresso tecnologico, il Grande Fratello, oggi, può diventare pressoché onnipresente, come Dio”.
Meditiamo gente, meditiamo.

Va da sé che ogni riferimento a persone esistenti e a fatti realmente accaduti è puramente casuale.

Marco Sommariva

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