Finalità di recupero – La Norvegia non la esclude a priori nemmeno per lo stragista di Utoya, 77 morti, una condanna a 21 anni (più eventuali altri 5 rinnovabili). In Italia le carceri sono discariche umane che arricchiscono cementieri e politici.

Il 22 luglio del 2011 Anders Behring Brevik veniva arrestato sull’isola di Utoya (Norvegia) dopo aver compiuto una strage uccidendo 77 persone, prevalentemente giovani partecipanti ad un’iniziativa del partito laburista norvegese. In precedenza aveva fatto esplodere un’autobomba a Oslo, davanti ad un palazzo governativo.

Utoya, l’isola della strage operata da Brevik

Arrestato in flagrante, Brevik veniva condannato il 24 agosto del 2012 a 21 anni, prorogabili. In Norvegia non c’è l’ergastolo ma la pena massima può essere prorogata di cinque anni ripetutamente. Un sistema, a mio parere, più razionale ed umano dell’ergastolo, senza parlare del “fine pena mai” del 41bis.

Nel 2016 Breivik vinceve un processo contro il governo norvegese per condizioni inumane di detenzione, a causa del suo prolungato isolamento, ottenendo un risarcimento dell’equivalente di 35.000 euro. Nel 2018, però, la Corte Europea per i Diritti Umani dichiara inammissibile il ricorso di Brevik per violazione dei diritti umani riguardo alle sue condizioni di detenzione: stando a Repubblica, si tratterebbe di un tri-locale con camera da letto, palestra e studio, più angolo cottura e servizi.

La Norvegia è sicuramente tra i paesi europei più avanzati nel sociale, questo sicuramente anche grazie alla sua ricchezza e al ridotto numero di abitanti, poco meno di 5 milioni e mezzo. Nel 1993 è stato il primo Paese al mondo a riconoscere con una legge il congedo parentale per i padri, oltre a quello delle madri, che prevede 49 settimane retribuite al 100%. Nelle classifiche sulla libertà di stampa dal 2002 al 2019 figura 12 volte al primo posto, una volta al secondo, tre volte al terzo e una volta al sesto (2006).

Immagini tratte dall’articolo “Halden, la prigione senza sbarre”, di Fabrizio di Palma

Da un articolo di Famiglia Cristiana del 2016 apprendiamo che “… la Norvegia investe nelle carceri circa due miliardi di euro all’anno per i suoi circa quattromila detenuti. L’Italia, per fare un paragone, ne spende tre a fronte di 53mila detenuti…”

Un ultimo stralcio, questa volta dall’articolo pubblicato da Ristretti Orizzonti il 12 luglio dello scorso anno – ottavo anniversario della strage di Utoya – a proposito della visita di alcuni giornalisti della BBC al carcere di Halden: “Qui non abbiamo a che fare con criminali da punire” ci ha tenuto a sottolineare il comandante delle guardie penitenziarie “qui il nostro compito è seguire in un percorso di crescita, consapevolezza e responsabilità, delle persone che hanno commesso degli errori nella loro vita, ma che un giorno usciranno da qui e diventeranno i nostri vicini.” “… Lo scopo della prigione, infatti, secondo il modello norvegese, non è quello di rappresentare la vendetta della società offesa da chi ha commesso un reato, ma quello di lavorare insieme a delle persone, che una volta tornate in libertà, potranno dare il loro contributo per il benessere della collettività…”.

Appare evidente che la situazione carceraria norvegese è sicuramente invidiabile ma purtroppo non certo ipotizzabile in quei termini nel nostro paese. Non per le notevoli risorse disponibili ma per l’approccio alla politica penitenziaria diametralmente opposto a quello italiano.

Immagine tratta dall’articolo “Fine pena mai?” pubblicato il 20 ottobre scorso da “INFOAut-Informazione di parte”

In Italia, tra i tanti bei principi sanciti dalla nostra Costituzione destinati a restare lettera morta, c’è anche la finalità di recupero della pena. Ma che finalità di recupero può esserci in un sistema che prevede il “fine pena mai”, cioè l’ergastolo, con l’aggiunta dei vari articoli 4bis, 41 bis etc. e dielle normative “carcerogene”, Bossi-Fini, Fini-Giovanardi in primis.

In sostanza, al di là delle buone intenzioni espresse dai “padri costituenti”, il carcere è solo una discarica umana oltre che un’enorme opportunità di arricchimento per i soliti noti.

Qualcuno ricorderà forse uno dei tanti scandali italiani, quello delle “carceri d’oro”. Per chi avesse dimenticato e per chi lo ignorasse per motivi di età propongo uno stralcio dall’articolo di Giampaolo Cassitta pubblicato poco più di quattro anni fa su Sardegna blogger – Informazione senza padroni”:

“… A quei tempi il Ministero dei lavori pubblici era diviso tra democristiani e socialdemocratici e così, il 25 febbraio del 1988 esplode lo scandalo delle “carceri d’oro” e Franco Nicolazzi, Clelio Darida e Vittorino Colombo rimangono coinvolti in un grosso giro di tangenti per l’assegnazione di appalti relativi alla costruzione di alcune carceri.
Il più colpito dallo scandalo fu il socialdemocratico Nicolazzi che ricopriva, quando scoppiò lo scandalo, il ruolo di segretario del PSDI.

Si dimise subito e affrontò il processo che si concluse con una condanna per concussione.
Questo comportò la fine della sua carriera politica…”

Ma non si deve andare così lontano nel tempo, come ci racconta Ermanno Gallo in un articolo – per lo speciale di Liberazione “Cemento e castigo” del 3 gennaio 2010, reperibile qui grazie ad “Insorgenze”, il blog di Paolo Persichetti – in cui intervista Cesare Burdese,  “un architetto torinese che da vent’anni si occupa di progettazione carceraria in stretto rapporto con la concezione istituzionale della pena. ”

Estremamente chiare le risposte alle ultime tre domande dell’intervistatore:

Quindi non è in vista una forma-carcere caratterizzata dalla produttività incentivata dal privato?
Non direi, tenuto conto della legge vigente e della dislocazione cellulare esistente. Casomai vedo la potenziale capitalizzazione a monte della carcerazione.

Cioè attraverso la progettazione e costruzione di nuove strutture carcerarie?
L’Italia è un grande cementificio. Per questo, più che fare dei containers o dei cubi prefabbricati, ai costruttori conviene costruire con colate di cemento. In questo modo, edificando strutture fotocopia, l’edilizia penitenziaria diventa particolarmente redditizia.

 

E chi potrebbe vincere  queste gare di appalto?
I signori del calcestruzzo.”

Gli stessi signori del calcestruzzo che stanno dietro ai devastanti progetti in Val Susa, ad esempio, tra cui brilla la “Cooperativa Muratori Cementieri” di Ravenna che solo due mesi fa ha evitato il fallimento grazie all’approvazione da parte del Tribunale di un concordato con i creditori grazie al quale, hanno tenuto a sottolineare con un comunicato stampa, ” … la Società riacquista la piena disponibilità del proprio patrimonio, e la possibilità di compiere tutti gli atti, sia di ordinaria che di straordinaria amministrazione, senza necessità di autorizzazione, ferma restando la vigilanza degli Organi della procedura…”

A proposito del concordato per CMC, “Ravennaedintorni”  ha voluto sentire il sindaco Michele De Pascale che così si è espresso: «nella ripartenza (post pandemia, ndr) è importante che la città e il Paese possano usufruire delle competenze di una protagonista assoluta come Cmc». Vale la pena ricordare che Cmc da tempo ha il 60 percento del suo giro d’affari all’estero e le ricadute locali si esauriscono in qualche occupato e poche sponsorizzazioni. Forse all’Italia e a Ravenna interessebbe sapere altro. Ad esempio cosa è successo alle dighe in Kenya, perché venne spostata lungo il Candiano una bomba, perché una cooperativa costruì un albergo di lusso su commissione della finanziaria di Gheddafi, come mai i fanghi dragati al porto di Ravenna sono rimasti nelle casse di colmata oltre i tempi autorizzati, perché il bitumificio in darsena ci ha messo così tanto a chiudere…”.

Concludo con questa notizia in tempo reale, grazie a Ristretti.it che l’ha rilanciata nella sua rassegna stampa quotidiana da questo articolo di Mauro Pili sull’odierna edizione de “L’Unione Sarda”: “Cagliari. Carcere di Uta, spesi 100 milioni per un flop di Stato”. Questo l’inizio: “Per la Procura la spesa è di 80 milioni di euro anche se poi, da quello che emerge, le opere vere e proprie ammonterebbero a 60 milioni. Nei bunker di Uta, a due passi dalle pale eoliche e dalle distese di pannelli fotovoltaici dell’area industriale di Macchiareddu, i lavori non sono mai finiti.

Il piano carceri d’oro non si smentì: il cantiere trasformatosi in fabbrica infinita di perizie, revisioni prezzi, collaudi dimenticati e pagamenti senza verifiche divenne oggetto di studio.

Ad occuparsene direttamente la Procura della Repubblica di Cagliari. Inchiesta a tutto tondo su una montagna di soldi pubblici spesi chissà come per una cattedrale nel deserto, alle pendici del parco di cervi e mufloni, sulla seconda avenue dell’area industriale nata per far posto alla chimica…”

 

 

 

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