SI TRAV. Come la militanza #NoTav mi ha dato il coraggio di diventare me stessa / 2

Per un acciacco di stagione, solo oggi rilancio la seconda parte dell’articolo di Filo Sottile, per chi non avesse scelto di andarsela a leggere direttamente sul sito di Wu Ming.

Libera Repubblica della Maddalena, Val Clarea, 10 giugno 2011. Concerto dei Lou Dalfin.

SI TRAV. Come la militanza #NoTav mi ha dato il coraggio di diventare me stessa / 2

di Filo Sottile

INDICE
1. Nostalgia di futuro (maggio-giugno 2011)
2. Ancora una volta il personale è politico (ancora una volta 7 giugno 2016)
3. La scoperta del queer (2011-2018)
4. Cerco casa (febbraio 2017)
5. Ogni lotta è tutte le lotte: transfemminismo e No Tav
6. These important years
* Ancora una cosa
* Ringraziamenti

1. Nostalgia di futuro (maggio-giugno 2011)
La Libera Repubblica della Maddalena è stata uno spazio fisico, un campo di forze, una discontinuità temporale, una connessione di corpi, una struttura sociale e relazionale. Si è materializzata per un solo mese. Non avevo mai sperimentato una situazione così esaltante. Ci sono andata ogni volta che ho potuto. Tutti gli aspetti positivi che ha saputo produrre in tanti anni la comunità delle persone No Tav in lotta, lì erano centuplicati.

A Chiomonte, in quei giorni, era chiarissimo che la lotta del movimento non è solo contro un treno, ma contro un modello economico, contro un determinato tipo di organizzazione della società, delle relazioni, del lavoro, perché lì una comunità si era data altre modalità e le ridiscuteva nella pratica, ogni giorno.

Stando alla Maddalena, quel certo grado di benessere esistenziale che il movimento spesso riesce a donarti aumentava di intensità; veniva proprio la certezza di essere uscita dalla cornice cinica – è tutto inutile, tanto la fanno lo stesso – e da quella vittimista – oh me tapina, mi deturpano casa e non ci posso fare niente – per entrare nell’ottica del protagonismo: cosa possiamo fare ora tutte e tutti insieme in questo territorio?

Alla Libera Repubblica della Maddalena si è aperta una porta nascosta. La lotta è in corso, non hai perso – Evviva! – ma non hai ancora vinto – A sarà düra! – eppure puoi già cominciare a sperimentare pratiche ed esperienze che sembrano venire direttamente da quella dimensione futura in cui hai già vinto, la realtà parallela in cui l’umanità si è già liberata dal capitalismo – e magari persino dall’eteropatriarcato – e siamo tutte persone libere.

Mi ricordo distintamente di una domenica mattina alla baita. Durante una colazione luculliana, con compagni e compagne, in quel momento di intelligenza, comprensione e condivisione fra esseri umani, nella mia percezione l’unica cosa che davvero stonava era il mio dover tacere una parte fondamentale di me. Ed è stato lì, credo, che ho iniziato a pensarlo seriamente: e se potessi raccontarmi davvero? Se potessi davvero vivere così come mi sento?

2. Ancora una volta il personale è politico (ancora una volta 7 giugno 2016)

Canzoniere delle pippe

Per un bel pezzo ancora, però, continuo a vivere la solita vita di merda. Nel quotidiano indosso la faccia che mi è stata assegnata e rispetto – e con quanto zelo! – tutte le prescrizioni di un maschio adulto, bianco, fertile, normodotato, eterosessuale e cisgender, incluso il comandamento di nascondere ogni devianza dalla norma.

Nel 2008 esce il Canzoniere delle pippe, una mia raccolta di poesie eroticomiche. Ho 30 anni e a questo punto sono più di tre lustri che indosso panni femminili in privato. La poesia che apre la raccolta contiene due versi che potrebbero suonare transfobici o quantomeno offensivi per le persone che si travestono, eppure li lascio, scientemente, perché nessuno possa dubitare che io sono proprio un «maschio vero» a cui piacciono, ovviamente, le «femmine vere». È un copione infame ed è uno strazio recitarlo, ma non mi sottraggo.

Casco in una depressione dopo l’altra, ogni volta mi ci tiro fuori con un «dài, posso starci dentro», ma senza mai la speranza reale di cominciare a vivere una vita più autentica. Il mio presente è marcito, il mio futuro è tarlato.

Nel 2011, due settimane prima che parta l’esperienza della Libera Repubblica della Maddalena, esce Lo Spleen di Mompracem, ovvero Yanez non ci sta!, il mio primo romanzo. Sotto le sembianze di un pastiche salgariano, ho nascosto una riflessione – un semino del movimento che germina – sulla necessità della lotta e dell’impegno politico.

Yanez, il fido compagno di Sandokan, si trova a fronteggiare una ciurma che si rifugia nell’art pour l’art e rifiuta di prendere il mare e insidiare le navi europee. L’unico personaggio della mia storia che tratto con un minimo di rispetto – l’unica presenza femminile – è Yang Indah, una crossdresser malese, ed è anche l’unica che riesce a lasciare l’asfissia dell’isola di Mompracem. Col senno di poi, ho l’impressione che con quella dipartita io censuri la polarità femminile. Silenzio, assenza. Da lì, da quella parte negata, non può venire aiuto. Yanez è completamente solo.

E così, sola, mi sento anche io, e pure peggio. Chi ha compagni non morirà dice la canzone, e io di compagni e compagne nel movimento ne avevo trovati e trovate, ma lo stesso mi sentivo morta.

Il fatto è che le persone con cui fai attivismo, le persone con cui resti a presidiare di notte, al freddo, sotto la pioggia, quelle con cui affronti una carica di polizia, quelle con cui ti vedi ogni settimana in assemblea, con cui organizzi una marcia, un volantinaggio o un incontro pubblico, quelle che ti vengono a dare il cambio davanti a una rete quando stai cascando dal sonno, quelle con cui hai cantato, mangiato, parlato, bevuto, brindato, respirato lacrimogeni, quelle ti si ficcano nel cuore e ti sembra di conoscerle profondamente. E tu? Tu, in cambio delle loro parole, dei loro sorrisi, dei loro abbracci offri le parole registrate, il sorriso prestampato, l’abbraccio rigido di un fantoccio. Lo stesso fantoccio che presenti a tutte le altre persone: partner, amici, amiche, parenti. Non è condivisione, non è vita.

Negli anni delle chattate solitarie ho conversato con svariate centinaia di altre crossdresser, il 90% delle quali pratica solo in privato. Sono moltissime quelle che sentono stretti i panni e l’identità maschile, eppure in tutte regna la rassegnazione: sto coi piedi per terra, mia moglie, i miei figli, i miei amici, i miei parenti, la società non capirebbero. E ancora: Come faccio con il lavoro?
La sofferenza di molte di queste persone è autentica. La loro vita, no.

Ho detto anch’io per anni le stesse identiche cose, in accordo perfetto con ciò che la società ci ha fatto intendere fin dai primi vagiti: le vite di chi non si attiene alla norma binaria, al genere assegnato, all’orientamento presunto, non sono degne di essere vissute. E ci siamo adeguate: rassegnazione o morte. E non cambia poi molto, perché la rassegnazione è morte.

Luca Rastello

Luca Rastello nella sua ultima lettera alle figlie scrive:

«Se c’è un augurio che posso farvi è di non cadere mai nella trappola della rassegnazione e dell’accettazione: quasi sempre quella che si presenta come “la vita così com’è”, secondo un’espressione cara ai realisti (gente che in segreto ama la schiavitù) è una truffa.»

 

 

Ed è questo che ho imparato coi No Tav. Dall’alto una voce ti dice che l’opera, piaccia o non piaccia, si deve fare e si farà. E se il movimento ci avesse creduto avremmo qui a nord ovest un’altra Salerno-Reggio Calabria, solo più devastante e più costosa. Uomini in divisa si mettono di traverso, piazzano videocamere, reti elettrosaldate, jersey, filo spinato e dicono di qui non si passa. E poi scopri che invece, tutt* insieme, con un po’ di determinazione e creatività si può passare. E non solo.

Quando affondi nella palude del quotidiano, nel presente marcito, nel futuro tarlato in cui ci relega questa società, quando davanti non c’è alcuna prospettiva, hai una risorsa in più: puoi tornare – anche solo con la memoria – a un altro modo di vivere, alla solidarietà, all’amicizia, alla condivisione che hai potuto sperimentare. È una nostalgia di futuro, del mondo che sarà: quel mondo esiste, l’hai toccato. E in quel mondo la tua vita è degna di essere vissuta e puoi essere te stessa. E puoi vivere.

A un certo punto, ho deciso che ci provavo davvero a salvarmi. Era il 2014, e il 24 di aprile, per celebrare il proposito, mi sono fatta i primi buchi nelle orecchie. Di lì a poco, ho smesso di infagottarmi in stracci sformati e ho iniziato a indossare abiti dal taglio più femminile anche fuori di casa. Mi sentivo leggermente più a mio agio con me stessa, ma orecchini e vestiti non cambiano le relazioni, non rovesciano i rapporti di potere, non contrastano le oppressioni. A quel primo, larvale, tentativo di liberazione personale mancavano due cose fondamentali. La dimensione collettiva e la prospettiva critica.

Paulo Freire dice che nessuna si libera da sola, nessuna libera nessuna, tutte e tutti ci liberiamo insieme. Ed è con questa consapevolezza che nei giorni della trivella a Rivalta, ho capito che da sola non ce l’avrei mai fatta, e che quello che mi ostinavo a vivere come un mio problema personale era in realtà una questione politica.

Rivalta, sera del 7 giugno 2016, il corteo spontaneo.

Quella sera, il 7 giugno 2016, dopo una giornata di presidio, dopo un gatto-e-topo con le divise blu culminato con un tamponamento fra due blindati, dopo una partecipatissima assemblea cittadina convocata d’urgenza, dopo un corteo spontaneo che andava a urlare sul grugno degli armigeri «Ve ne dovete andare!», una volta a casa, ho preso l’indirizzo di una compagna di Ah, Squeerto! che mi ero procurata nelle settimane precedenti e le ho scritto che avrei voluto mettere il naso a un loro incontro. Volevo vivere e volevo compagne con cui combattere per la vivibilità di persone come me, persone queer.

3. La scoperta del queer (2011-2018)
In queste settimane presto il mio tempo in biblioteca. Giorno dopo giorno prendo confidenza con la classificazione decimale Dewey. Si tratta di quella combinazione di numeri e lettere che si trova appiccicata sul dorso dei libri, serve a dargli un indirizzo sugli scaffali delle biblioteche. Ora, qui non è importante spiegare come funzioni la classificazione Dewey, la cosa che voglio sottolineare è la sua arbitrarietà. Un esempio. Tutta la narrativa del mondo comincia con il numero 8, la seconda cifra invece indica la lingua in cui è scritto il libro. Funziona così:

810 letteratura americana in lingua inglese
820 letteratura inglese
830 letteratura tedesca
840 letteratura francese
850 letteratura italiana, sarda, dalmatica, romena, ladina
860 letteratura in lingua spagnola e portoghese
870 letteratura latina
880 letteratura greca
890 altre letterature

La classificazione da una parte ordina l’universo della parola scritta, dall’altra ci mostra la mentalità dell’ordinatore primo, Dewey, e dei suoi epigoni. Gente che sente la necessità di distinguere in due diverse classi inglese e americano, ma non si imbarazza ad accorpare lingue diverse – italiano e romeno, spagnolo e portoghese – e non ha nessuna vergogna a confinare tutte le altre lingue del mondo in una sola classe. La sua funzionalità esprime anche una precisa visione del mondo.

La classificazione Dewey tuttavia ha la possibilità di fare distinzioni sottili. È vero che in 890 ci sono tutte «le altre letterature», ma se vogliamo cercare Anna Karenina lo posso trovare in 891.733, la sezione che raccoglie la narrativa russa scritta fra il 1800 e il 1917. Se invece cerco le poesie di Esenin saranno in 891.713. Ogni libro ha il suo posto.

Facciamo un’altra prova? Poniamo che io voglia cercare Questione di genere (Laterza, 2013) di Judith Butler. Lo cerco in tre luoghi diversi – la biblioteca Peppino Impastato di Melpignano, il Centro documentazione Arcigay Cassero di Bologna e la Biblioteca arcivescovile cardinal Carlo Confalonieri de L’Aquila – e, a sorpresa, lo trovo con tre catalogazioni diverse. Sempre nella classe che inizia col 3, quella che include le scienze sociali, ma a Melpignano è marchiato col 305 (Gruppi sociali), a Bologna col 305.3 (Gruppi sociali: uomini e donne), e a L’Aquila col 305.4 (Gruppi sociali: donne). Vogliamo provare in una quarta biblioteca? Scelgo quella di Settimo Torinese, e qui è catalogato come 305.42 (Gruppi sociali: donne, ruolo sociale e condizione).

Il libro è sempre quello, lo stesso identico oggetto fisico, le stesse identiche parole fra le pagine, ma la sensibilità e la visione del mondo di chi lo ha catalogato lo assegnano a una sezione piuttosto che all’altra. Se in un sistema con così tante sfumature la scelta è arbitraria, e in qualche caso scorretta o addirittura ingiusta, in un sistema binario i casi in cui ogni scelta diventa un taglio del nodo di Gordio si moltiplicano.

È il caso del sesso. Quasi tutte le legislazioni degli stati occidentali impongono che a ogni individuo sia assegnato un sesso. Le uniche due scelte possibili sono maschio e femmina, ma sappiamo che esistono, distribuite su tutto il globo, diverse situazioni intermedie: persone con diverse conformazioni corporee e cromosomiche, alcune di queste – attiviste e attivisti – a partire dagli anni ’90 hanno preso a definirsi persone intersex.

Gli/le intersex vengono assegnate arbitrariamente a un sesso o all’altro, i medici che si ispirano ai protocolli Hopkins operano sui corpi di queste persone già nel loro primo anno di vita, e quindi senza il loro esplicito consenso, chirurgie correttive molto invasive: amputazioni della clitoride, ricostruzioni della vagina, eccetera. Tertium non datur: è all’opera un complesso di poteri, consuetudini, saperi che rendono il binarismo obbligatorio.

Quando parliamo di sesso, siamo nell’ambito del dato biologico. Parliamo di genere se invece ci riferiamo all’identità, al senso di sé e alla relazione sociale che ogni individuo sperimenta. Persino la Chiesa cattolica ammette che sesso e genere sono distinti, ma propugna – ed è l’orientamento che permea il senso comune – che questi debbano coincidere. Per questo le persone transgender sono e sono state un’aberrazione da compatire nel migliore dei casi, da guarire, escludere o eliminare nei peggiori.

Non mi sento molto in grado di fare una lezione sulle teorie queer. Consiglio di leggere l’illuminante panoramica che ne fa Lorenzo Bernini in Le teorie queer. Un’introduzione, Mimesis, 2017, testo di cui mi dichiaro debitrice per la costruzione di tutto questo capitolo. Qui mi interessa dire che il pensiero queer mette in critica le assegnazioni di sesso e genere e le relazioni che queste istituiscono con l’orientamento sessuale. È un pensiero che nasce dal basso, maturato sulla pelle di chi sfugge alla norma e a ciò che viene considerato naturale ma che di naturale non ha proprio niente. Il termine queer stesso, in effetti, è sfuggente, polisemico, privo di un significato univoco

«”Queer” può essere […] il contrario di “straight”, che vuol dire dritto, retto […] In italiano può essere tradotto come storto, strano, strambo, bizzarro, bislacco, ma equivale a insulti come frocio, finocchio, culattone, che in inglese possono però essere rivolti anche a una donna. [L. Bernini, Le teorie queer, cit., p. 119]

Pensatori e pensatrici, attivisti e attiviste, hanno provocatoriamente preso possesso degli insulti per farne una vera e propria identità politica, inclusiva di tutte quelle persone che sfuggono o si ribellano alle classificazioni consuete e si pongono in aperto contrasto a sessismo, maschilismo, omofobia, transfobia, bifobia, binarismo sessuale, etero e omonormatività.

Judith Butler, Michel Foucault, Mario Mieli, Leo Bersani, Lee Edelman, Paul Preciado, Guy Hocquenghem per limitarsi solo ad alcuni nomi hanno prodotto pensiero queer, cioè hanno provato a smontare l’apparato classificatorio «sesso, genere e orientamento sessuale», a mostrarne i meccanismi, le mire, gli effetti segreganti, i rapporti di potere sottesi e a individuarne ragioni storiche, economiche, sociali, culturali, politiche.

Ciò che ci viene fatto passare per naturale e trascendente, ci dicono i lavori dei pensatori e delle pensatrici queer, è in realtà collocabile nella storia e si modifica nel tempo. Monique Wittig, per esempio, in Non si nasce donna, seguendo questo filo, arriva addirittura ad affermare che quelle di uomo e donna, «come le razze, altro non sono che classi politiche esito dello sfruttamento del primo sulla seconda» (L. Bernini, Le teorie queer, cit., pp. 155-156, nota 57) e quindi un’identità che viene spacciata come astorica, quella femminile, è anch’essa frutto di una costruzione sociale, plasmata da rapporti di dominio.

Binarismo sessuale e di genere, eterosessualità assunta come norma – classificazioni molto più rudimentali e tranchant della Dewey – danno luogo a un ordine gerarchico dell’umanità e dei suoi comportamenti: ci sono corpi e pratiche che hanno un peso e sono messe in evidenza e altri corpi e altre pratiche che vengono ignorate, stigmatizzate, escluse. Ci sono persone che in certi casi, proprio a causa dell’etichetta che ricevono, vengono perseguitate e/o uccise e in ogni caso costrette a vivere una vita minore.

Sesso, genere e orientamento sessuale nell’ottica queer funzionano come muri, come confini, e argini alla fluidità e alla mobilità dei comportamenti degli esseri umani, istituiscono luoghi del privilegio e riserve indiane e linee che non possono essere valicate se non a caro prezzo. Ma il mondo non è uno scaffale, gli esseri viventi non sono oggetti da mettere in ordine. A questo sistema discriminatorio, spacciato per immutabile, il pensiero queer muove una critica radicale e, nell’atto stesso di decostruirlo, apre spazi di libertà e di vivibilità. In questo somiglia molto alla lotta contro il Comandamento della Grande Opera e contro la Legge dell’Ormai, portata avanti da quasi tre decenni dal movimento No Tav.

Mi sono avvicinata al pensiero queer in maniera sghemba. Da una parte ci sono state alcune letture fantascientifiche – quanto mi hanno emozionata i/le gethenian* de La mano sinistra delle tenebre di Ursula K. LeGuin che ogni 26 giorni entrano in un estro che li/le rivela di volta in volta come maschi o femmine – e dall’altra sono stati fondamentali alcuni libri che parlano di piante.

A casa ho diversi manuali per il riconoscimento degli alberi e in più di un caso mi è capitato di accorgermi di quanto a volte foto, disegni e descrizioni sono distanti dall’esemplare che trovi nel bosco o in un giardino, a testimonianza che i viventi sono sempre più complessi, fluidi, mutevoli della più precisa delle nostre catalogazioni.

Ma sono soprattutto i libri di Gilles Clément sulle comunità vegetali composite e cosmopolite che si creano nei residui, i luoghi che l’uomo smette di governare e irregimentare, e il lavoro di Stefano Mancuso sulla collaborazione fra specie diverse di vegetali, la loro intelligenza e la loro sessualità, a svelarmi che la manifestazione del reale è infinitamente molteplice e niente affatto binaria. Meno di una settimana prima della trivella a Rivalta, sul blog di Alpinismo Molotov esce un mio scritto che parla dell’ailanto, una pianta che non solo travalica confini geografici, ma anche quelli sessuali, può infatti presentare caratteri maschili, femminili o misti, ed è questa una delle ragioni del suo successo biologico.

È dalle piante e dalle stelle dunque che mi giungono le prime rassicurazioni sul fatto che una persona come me, che si sente transgender, queer, non binaria, può esistere.

4. Cerco casa (Febbraio 2017)
Non ho mai formulato un’esplicita richiesta di aiuto per la sofferenza psichica che mi hanno causato repressione e clandestinità. Ho dovuto attendere il 2018 prima di vedere una psicologa nel suo habitat naturale, lo studio. Nel frattempo, il mio agnosticismo di ferro mi ha impedito di cercare conforto nelle religioni. Una dozzina di anni fa c’è stato un momento in cui ho preso in mano qualcuno di quei libri dai titoli tipo Metti tutto a posto con le forze quantiche, Fine dei problemi con l’autoipnosi, Va tutto molto molto bene se ci credi veramente, ma non ne ho mai finito uno e non posso nemmeno dire che non funzionino.

In tutto questo, una delle poche esperienze che mi ha dato davvero sollievo e strumenti – oltre a scrivere, cantare, esibirmi – è stata la militanza No Tav attiva, illuminante e prodiga di doni persino nei suoi aspetti più pesanti: le discussioni che finiscono in merda, la frustrazione, la stanchezza, i ripiegamenti, gli insuccessi. Non è poi così strano che, giunta al culmine della paranoia e della negazione di me, mi sia venuto in mente di cercare persone con cui fare politica, invece che angeli salvatori.

In Italia ci sono diverse assemblee e collettivi che fanno attivismo transfemminista e queer. In alcune città la collaborazione con la rete femminista Non una di meno è così stretta da permeare di queerness il suo intero operato. Esiste anche un coordinamento che si chiama somMovimentonazioAnale che cerca di mettere in contatto tutte le varie esperienze locali. A Torino c’è Ah, Squeerto!, ed è a loro che busso.

A questo punto del racconto si deve essere capito che la tempestività non è il mio forte. Prendo contatto con l’assemblea a giugno 2016, e mi presento alla prima riunione otto mesi dopo.

Piove a dirotto e, mentre guido per raggiungere la città, continuo a ripetermi che sono calma, rilassata, in perfetta armonia con me stessa e con il mondo. La verità è che ho un frullatore impazzito nella pancia e snocciolo bestemmie a ogni semaforo. A nessuna prima teatrale, a nessun esame universitario, a nessun colloquio di lavoro, mi sono sentita così emozionata.

In quella fase Ah, squeerto! non ha un posto fisso in cui riunirsi, è nomade, e attraversa diversi spazi cittadini. Da un mesetto si vede nei locali del circolo GLBTQ Maurice. Parcheggio distantissimo e mi avvicino a piedi, ma sembra sia l’ombrello a trascinarmi. Il dito si poggia sul campanello, ma non riesco a pigiarlo. Dubbi, paure, domande imperversano nella testa. Cosa vorrà poi dire transfemminismo? Gay e lesbiche ne conosco, ma chissà come sono fatte delle persone queer? Andrò bene anche se non ho ancora finito nemmeno un libro di Butler? Mi piaceranno? Piacerò? Sono sul punto di tornare indietro e lasciare stare. Poi la meschinità e l’omofobia interiorizzata mi spingono al coraggio: E se mi riconosce qualcuno qui piazzata davanti al portone di un’associazione di froci? E suono.

Quelle sono settimane in cui Ah, Squeerto! attraversa una fase di crisi e scazzi e il clima non è dei migliori, ma l’espressione da pulcino bagnato che lo stress emotivo mi disegna in faccia, induce le compagne – per noi i plurali sono sempre femminili – a riservarmi una buona accoglienza. Prima di cominciare l’assemblea vera e propria si cena, io ho già mangiato, ma anche fossi digiuna non potrei mandare giù una nocciolina. Ogni volta che qualcuna delle compagne mi rivolge la parola riesco ad andare poco oltre i monosillabi e gli schiarimenti di gola. Ho la paura fottuta che se tolgo il tappo non possa poi evitare di vomitare 38 anni di censure, reticenze, non detti.

Nel frattempo mi guardo intorno e comincio a rispondere a una delle domande: come sono fatte le persone queer? Carne, ossa, pelle, nervi, uguali a tutti gli altri esseri umani e ognuna diversa a modo suo.

Finiscono di mangiare, mi affaccendo a sparecchiare, soprattutto per evitare di pensare a cosa dire, a cosa fare, in che posizione mettermi. Loro sembrano tutte così disinvolte. Riprendiamo posto e la persona che mi ha fatto da tramite mi chiede se voglio dire due parole per presentarmi. In effetti non voglio, non so bene cosa dire senza cominciare da Adamo ed Eva, ma dalla mia bocca le parole hanno preso a uscire, lo psicopoliziotto che è in me interviene e le piglia per briglie, in qualche modo le governa: ne viene fuori una roba che più che una presentazione sembra un indovinello. Ho provato a farci attenzione e miracolosamente ci sono riuscita: ho parlato di me evitando declinazioni di genere. E quindi arriva la domanda:

– Che pronome preferisci? Maschile o femminile?

Eccomi, mi dico, sono a casa.

5. Ogni lotta è tutte le lotte (transfemminismo e No Tav)
Che significa transfemminismo?

Sebbene l’alleanza femminista fra donne assegnate femmine alla nascita e persone trans sia decisamente più antica, la parola è piuttosto recente e la introduce nel 2001 Emi Koyama nel suo Manifesto transfemminista. Il testo nasce dall’esigenza di contrastare ogni deriva essenzialista e di «elaborare una teoria femminista che [sia] decisamente pro-trans e un discorso trans che [sia] radicato nel femminismo». L’istanza prima del transfemminismo è proporre un fronte femminista più ampio e inclusivo, perché il sessismo eteropatriarcale non si accanisce solo sulle donne nate donne, ma su chiunque provi ad abbattere o anche solo a scavalcare, aggirare, i suoi muri e le sue recinzioni.

Inclusività
L’inclusività è un tratto tipico della lotta in Valsusa. Il fronte No Tav è davvero composito: dal mondo cattolico a quello anarchico, da quello autonomo ai transfughi dal PD, c’è spazio per tutti e tutte. Restano fuori i fascisti e i razzisti. Ciò che unisce tutte le persone No Tav è la consapevolezza di essere vittime della medesima oppressione, quella esercitata dallo Stato in combutta con le lobby del cemento e del tondino. Il successo e la tenuta di questa lotta si deve proprio alla sua molteplicità – sia nelle identità, che nelle pratiche – e alla resistenza che ha saputo opporre ai tentativi di dividere il movimento in buoni e cattivi, in «autentici valligiani» e «anarcoinsurrezionalisti dei centri sociali». Uno dei più noti slogan del movimento è «per essere No Tav non è necessario essere valsusini, basta essere onesti e informati». È un rifiuto esplicito di ogni gretto localismo: si può gridare «giù le mani dalla Valsusa» indipendentemente da dove si è nati e da dove si viva e in ogni «a sarà düra» che si leva c’è spazio anche per il mio accento siculotorinese.

Festival Alta Felicità, Venaus, 28 luglio 2017. Lo stand della Federazione Anarchica Italiana accanto a quello dei Cattolici per la vita della Valle.

Allo stesso modo Emi Koyama nel suo manifesto allarga la pratica transfemminista «alle persone queer, intersex, agli uomini trans, alle donne non-trans, agli uomini non-trans e a tutt* coloro che siano solidal* nei confronti dei bisogni delle donne trans, e che considerino l’alleanza con le donne trans come una parte essenziale della loro stessa liberazione». È una visione del mondo futuro, e in quel mondo ci siamo tutte e tutti, esclusi fascisti, razzisti, transomofobi, sessisti e maschilisti e tutte le altre forme di oppressione e discriminazione, anche quelle che il nostro privilegio ancora ci nasconde.

Mescolanza e pluralità nelle fasi decisionali, nella partecipazione, nelle pratiche sono fondamentali sia per i No Tav sia per le transfemministe. Entrambe le lotte esplicitamente bandiscono ogni forma di purezza.

Mediazione al rialzo
L’inclusività, il desiderio di un modo plurale, però è una forma di – per usare un’espressione di Wu Ming – mediazione al rialzo e permette critiche più affilate, proposte più articolate e rende più radicali le posizioni, non le annacqua, non le compromette.

Nel 2017 a Rivalta ci sono state le elezioni amministrative, le ha vinte per 50 voti l’ex assessore all’ambiente della regione Piemonte, Nicola De Ruggiero. Sventola un’ambigua bandiera No Tav, ma la sua posizione è che sia necessario allontanare il più possibile la linea dal paese (e gli altri si arrangino). Per conseguire questo risultato, uno dei primi atti della sua giunta è stato quello di far rientrare Rivalta nell’Osservatorio per l’asse ferroviario Torino-Lione, organo che si occupa di capire come realizzare l’opera, non se realizzarla. Il comitato No Tav di Rivalta continua a evidenziare le ambiguità dell’attuale amministrazione e continua a ribadire che No Tav significa né qui, né altrove.

Alla base del transfemminismo c’è la consapevolezza che esiste un’oppressione sistemica e si chiama eteropatriarcato. La violenza eteropatriarcale può essere agita da chiunque, ed essere diretta contro chiunque, indipendentemente da sesso, genere e orientamento, ma ciò che femministe e transfemministe danno per assodato è che questa violenza è agita nella stragrande maggioranza dei casi da maschi etero cisgender. Non c’è infatti un’emergenza di uomini uccisi dalle loro compagne, le violenze contro lesbiche, gay e persone transgender sono quasi sempre commesse da maschi. L’eteropatriarcato normalizza, propone come inevitabili, naturali, la discriminazione, la diversità dei salari, l’assoggettamento dei corpi. Chi nega questi assunti, che esista un privilegio maschile, che esista un’oppressione su donne e lesbiche, gay, bisex, transgender, intersex, queer, non può dichiararsi transfemminista.

Indipendentemente da sesso, genere e orientamento, tutte possiamo condurre queste lotte, ma non siamo tutt* sulla stessa barca. No Tav e transfemministe si ritrovano anche in questo: sono inclusive, ma allergiche alle supercazzole.

Saperi costruiti dal basso
Il movimento No Tav nel corso degli anni ha continuato a studiare i progetti della controparte, a smontarli, a criticarli dal punto di vista scientifico, economico e politico, senza delegare, con un’autoformazione costante e un continuo scambio fra militanti e tecnici.

È ciò che continuano a fare attiviste, attivisti, collettive, collettivi e assemblee transfemministe di tutto il mondo: mettere a disposizione esperienza, conoscenze, capacità per esplorare ogni ambito dell’eteropatriarcato, difendersi dalla sua oppressione e immaginare nuovi strumenti di lotta, di piacere, di liberazione. Nell’ambito dell’attivismo queer si continuano ad autoprodurre fanzine (qui e qui alcuni archivi) che spaziano dalle genealogie nei movimenti queer, all’eteronormatività nelle relazioni, dalla discriminazione delle persone grasse, a violenza e consenso, dal papilloma virus, fino ad arrivare alla queerness nel mondo vegetale, per citarne solo alcune. Quasi tutto ciò che raggiunge un livello accademico – esistono corsi di laurea in gender e queer studies – trae linfa dalle esperienze e dalle riflessioni dell’attivismo di base.

Ju-jitsu
All’indomani della manifestazione del 3 luglio 2011, successiva allo sgombero manu militari della Maddalena, i media concentrano tutte le loro attenzioni su qualche sasso lanciato da No Tav. Evitano così di raccontare sia le ragioni della protesta, sia le documentate violenze delle forze di polizia. Il movimento risponde con un nuovo slogan: «Siamo tutti black bloc».
Ancora: è il 2014 quando si istruisce un processo per terrorismo contro Chiara, Claudio, Mattia e Niccolò accusati di aver sabotato un compressore, il movimento organizza una grande manifestazione a Torino e la intitola «colpevoli di resistere».

Flessibili come rami di salice è il principio del ju-jitsu: usare contro il nemico la sua stessa forza. Rivendicarsi quelle che dovrebbero essere etichette denigranti è una strategia che permette di narrare storie altre, indigeste al potere. È un’attitudine punk.

Lorenzo Bernini sostiene che il primo uso politico del termine queer sia bicefalo: dal basso lo inaugura la Queer Nation, un collettivo di attiviste e attivisti contro la sierofobia (discriminazione nei confronti delle persone sieropositive e affette da HIV) e, a livello accademico, poco dopo, ma in maniera indipendente, Teresa De Lauretis lo riprende per un convegno del 1990 intitolato Queer theory.

Anche in Italia il termine «frocio» prima – già negli Elementi di critica omosessuale di Mario Mieli – e «frocia» poi, si caricano di significati politici. È un’operazione che va al di là dell’ironia: è un’irruzione nella cornice del nemico per rovesciarla, sabotarla, distruggerla. E inoltre, per parafrasare Adorno, è un precipitato gioioso della rabbia.

Torino, 28 giugno 2018. «I nostri corpi non hanno frontiere. Rivolta frocia!»

Permeabilità delle lotte
Negli ultimi due anni, migliaia di persone migranti percorrono la Valsusa, cercano di oltrepassare il confine attraverso le Alpi. Interi settori del movimento No Tav si sono autorganizzati per dare supporto, conforto, aiuto, informazioni a queste persone. A motivare questo impegno, oltre ai sentimenti di solidarietà, c’è una consapevolezza: le stesse forze che sacrificherebbero la vita di una valle e dei viventi che la abitano per muovere più velocemente merci, non contemplano il diritto di tutti gli esseri umani a spostarsi liberamente.

I/le sacrificabili della Valsusa e i/le migranti che la attraversano vivono piani di oppressione diversi: il luogo di nascita, il possesso di documenti, la possibilità di ottenere un contratto di lavoro, il sesso, il colore della pelle sono tutti fattori che creano gerarchie: rendersene conto, imparare ad ascoltare i racconti di chi vive diverse oppressioni, è un passo verso l’autodeterminazione e un’alleanza reale.

È la permeabilità delle lotte. È il tentativo di abbracciare diversi piani di oppressione e mettere in relazione chi ne è oggetto per elaborare strategie che pongano argine alla frammentazione e immaginare mondi in cui i diritti di alcun* non siano a discapito dei diritti di altr*.

 

A inizio ottobre il laboratorio Smaschieramenti in combutta con Non Una Di Meno ha organizzato a Bologna un blocco del traffico contro fascismo e islamofobia. Lo scorso 28 giugno, Ah, SqueerTO! insieme ad altre sette realtà di movimento cittadine ha costruito Nessun* Norma (qui la sintesi che più mi sento di sottoscrivere), un pride contro le frontiere, per la libertà dei corpi e contro le politiche repressive del decoro. Un corteo che per la quantità di uomini in armi e Digos mobilitati assomigliava moltissimo, anche quello, a un’iniziativa No Tav. Sono solo due eventi fra decine, a testimoniare che l’intenzione di uscire dagli orticelli e la volontà di contaminazione delle lotte sono fondanti in chi fa attivismo queer.

Sabato. – Guardatemi: apertura mentale, solidarietà, diritti per tutt*, no perbenismi! Mercoledì. – Guardatemi: grettezza, repressione, tolleranza zero, «decoro»!

Autodeterminazione
Quando Emi Koyama scrive «riteniamo di avere diritto esclusivo di prendere decisioni in merito ai nostri corpi e che nessuna autorità politica, medica o religiosa possa violare l’integrità dei nostri corpi contro la nostra volontà o intralciare le nostre decisioni riguardo a ciò che di essi facciamo», sta parlando di autodeterminazione, la stessa che chiedono i/le No Tav riguardo al territorio che abitano. «Il mio corpo, la nostra terra», dice una T-shirt delle donne No Tav.

«Mi cuerpo, mi primer territorio» è uno slogan diffuso in America latina, mette in relazione le lotte contro la voracità di terra del capitale e quelle contro l’irregimentazione dei corpi condotta dal patriarcato e dall’eterosessismo. Si tratta della stessa opposizione, della stessa azione, dello stesso obiettivo: acquisire la piena responsabilità, sottrarsi a ogni imposizione dall’alto, su ciò che accade sul proprio corpo e sul proprio spazio vitale.

C’è ancora una cosa…
…e non è secondaria per nulla: l’importanza che sia nel mondo No Tav sia in quello transfemminista queer si dà alla convivialità, all’incontro, al piacere, alla festa.

6. These important years

Quando è iniziata la mia transizione?

Sono sette anni, se parto da quel pensiero fatto alla Maddalena. Quattro, se stiamo ai primi simbolici buchi nelle orecchie. Quasi due anni e mezzo, invece, da quel 7 giugno 2016. Ventidue mesi se l’inizio è il mio approdo ad Ah, Squeerto!.

Il percorso “ufficiale” però, quello sancito dalla legge 164 del 1982 che regolamenta le transizioni di genere in Italia, è molto più recente, ed è partito a maggio di quest’anno. Ho imboccato questo sentiero perché è l’unica possibilità di aver accesso legale alla cura ormonale, ed è l’unico cammino – per quanto assai arduo – per ottenere un cambio dei documenti. Ma ciò che più conta è che mettermici su mi ha finalmente indotto a prendere a picconate l’auto-repressione, a uscire dalla clandestinità e cominciare a chiedere che mi si chiami con il mio nome, che era e resta Filo, la forma abbreviata di Filomena.

Sono sei mesi che racconto della mia transizione, le persone che mi conoscono da tempo spesso mi hanno chiesto: e ora come ti senti?

Eh, bella domanda!

Mi sento come Frodo e Sam quando decidono di liberarsi di elmi, scudi, abiti da orco e attraversare Mordor senza mascherarsi, esibendo i loro corpi e la loro fragilità. Mi sento più vicina a me stessa e infinitamente più leggera. Quel travisamento – la mia socializzazione maschile – mi ha protetta fin qui, ma allo stesso tempo mi pesava, mi strozzava, mi impediva di respirare a pieni polmoni, di camminare, di agire.

Anche Marta Battiato: alcune compagne di Ah, Squeerto! mi hanno chiesto perché fossi così dura e giudicante e usassi toni così supponenti e denigratori nei suoi confronti. Una compagna mi ha detto: «nel mio femminismo c’è posto anche per lei». Solo dopo aver preso atto che quella durezza e quella supponenza, quella incapacità di empatizzare con lei – lo so che sembra assurdo, sto parlando di me! – fossero i segni dell’eteropatriarcato interiorizzato, sono riuscita a mitigare il linguaggio nel brano in cui ne parlo. Marta a modo suo, dalla sua postazione, ha combattuto e mi ha condotto qualche passo più avanti, fin dove poteva arrivare e le sono grata. Ora me ne libero, di lei e di quell’altro me, per proseguire il cammino e potermi vedere allo specchio e mostrarmi a volto scoperto.

Resta da attraversare questa Mordor, questa Terra desolata, questo paese guasto.

È il 21 dicembre 2017, il solstizio d’inverno, la giornata più corta dell’anno, fra poco si aprirà la notte più lunga e io sono depressa sul divano. Il sollievo non è mai una volta per tutte.

Gli spiragli di futuro utopico che ho visto balenare davanti ai miei occhi alla Maddalena e in altre situazioni di autogestione No Tav, gli spazi di autenticità e libertà che mi concede Ah Squeerto! non mi sono sufficienti, tanto più che – paradosso dei paradossi – il mio attivismo transfemminista in questa fase è in incognito, solo Sara e pochissime altre persone sanno che cosa vada a fare ogni settimana al Gabrio, nuova sede delle assemblee di Ah Squeerto!. Il mio quotidiano resta quello di sempre, sul mio corpo continuano a spadroneggiare le forze nemiche, la libera espressione di me e della mia identità di genere è meno di un part time, si manifesta tre ore la settimana.

Sono esperta solo delle mie depressioni e non so farne leggi universali, so che ci finisco dentro quando sento il futuro come la copia esatta del presente bacato in cui vivo, la sua logica conseguenza. È l’esperienza che fa il pittore Jean Pondolski nel romanzo di Jacques Spitz L’occhio del purgatorio: se il futuro è dritto davanti al momento attuale, vedo solo ripetizione prima, e morte poi.

Il futuro di cui abbiamo bisogno è diverso, non è lineare, è obliquo, sghembo – è queer! – è frutto di uno scarto ed è il prodotto di un impulso utopico, è un tempo realmente altro da questo presente e bisogna immaginarselo (qui Wu Ming 1 lo spiega bene). Ci vogliono immagini che lo suggeriscano e azioni che lo rendano possibile, altrimenti non può che scorrere negli alvei profondi dell’Ormai e dell’Inevitabile.

Il tunnel è ormai iniziato, dobbiamo andare avanti.
La linea è satura.
Ce lo chiede l’Europa.
Se non lo facciamo interrompiamo il corridoio Lisbona-Kiev, la Via della seta.
Torino, il Piemonte, l’Italia resteranno fuori dai traffici se non ci adeguiamo.
Faremo un Tav sostenibile, una soluzione low cost.

Ci devi studiare sopra per sapere che il tunnel non c’è, che la linea attuale è sottoutilizzata, che a Lisbona, a Kiev, a Pechino se ne fottono del nostro TAV e che non c’è risparmio e sostenibilità possibile per un’opera così socialmente ed economicamente impattante. E poi immaginare il tuo territorio come il frutto dei desideri e delle esigenze di tutte le componenti della comunità che lo abitano. Immaginare che vai a un’assemblea e puoi prendere parola ed essere parte di un processo collettivo e non un burattino nelle mani dei burocrati, dei politici, del capitale. Tutto chiaro per me: tradurlo sul mio corpo, sulla mia esistenza è un’altro paio di maniche. Essere più libera e radicale nella mia frociaggine, aumentarne il raggio di azione nello spazio e nel tempo, mi pare irrealizzabile, velleitario, utopistico.

E come fai con il lavoro?
E con gli amici?
I parenti?
La società?
I vicini di casa?
I conoscenti?
i passanti?
Lascia perdere. Frocia part time è già un gran lusso.

Io non me lo ricordo come ci è capitato, ma so che a un certo punto il 21 dicembre del 2017 mi trovo per le mani un libro e inizio a leggerlo. È Stella distante di Roberto Bolaño. Io i libri li riempio di segni, sottolineature, punti esclamativi, commenti. Questo qui è bianco fino a metà. Sto sprofondando nella Palude della tristezza come Arthax, il cavallo di Atreiu. Ancora grazie che stia leggendo, invece di piangere in silenzio o dormire.
Poi all’improvviso mi tiro su e mi siedo a gambe incrociate: leggere diventa un atto volontario e non più solo lettere che scorrono sotto gli occhi. Il brano che risveglia la mia attenzione comincia così:

Un giorno si arrampicò su uno di questi pali e ricevette una scossa così forte che perse entrambe le braccia. Gliele dovettero amputare quasi all’altezza delle spalle. Così Lorenzo crebbe in Cile e senza braccia, cosa che già di per sé rendeva la sua situazione piuttosto svantaggiosa, ma crebbe per di più nel Cile di Pinochet, cosa che trasformava qualsiasi situazione svantaggiosa in disperata, ma questo non era tutto, perché ben presto scoprì di essere omosessuale, cosa che trasformava la situazione disperata in inconcepibile e inenarrabile.
Le sue delusioni (per non parlare di umiliazioni, sgarbi, mortificazioni) furono terribili e un giorno – giorno da segnare con un sassolino bianco – decise di suicidarsi. Un pomeriggio d’estate particolarmente triste, quando il sole scompariva nell’Oceano Pacifico, Lorenzo si buttò in mare da uno scoglio usato esclusivamente dai suicidi (e che non manca in ogni tratto di litorale cileno che si rispetti). […] La sua vita allora, proprio come si racconta, gli passò davanti agli occhi come un film. […] Con improvviso coraggio decise che non sarebbe morto. Dice di aver detto ora o mai più e tornò in superficie. Risalire gli parve interminabile; tenersi a galla, quasi insopportabile, ma ce la fece. Quella sera imparò a nuotare senza braccia, come un’anguilla o una biscia. Suicidarsi, disse, in questa congiuntura sociopolitica, è assurdo e ridondante.»

Bolaño bara, lo fa per tutto il romanzo cucendo reale, verosimile e fantastico in una sola tela. Quella di Lorenzo non è una fiaba, ma la storia di Lorenza Böttner (1959-1994), pittrice, danzatrice, cantante transgender priva di braccia.

Balzo dal divano. Comincio ad agitarmi per casa. Cucino, pulisco, mi lavo, apro le finestre, metto sulla scrivania il materiale ancora intonso che devo studiare per un esame, mando la storia di Lorenza così come la racconta Bolaño nella mailing list di Ah, Squeerto!.

Non sono fuori dalla palude, non ho risolto nulla, ma ho un’immagine potente, quella di Lorenza che esiste e che balla e dipinge. Un’immagine che ne richiama altre, la Maddalena, le chiacchiere intorno al fuoco, i canti con i compagni e le compagne No Tav, il calore, gli abbracci e la comprensione delle mie compagne queer. Sento che davanti ci sono tanti futuri e che voglio prendermi il tempo, lo spazio, la possibilità di incarnarne – ora! – uno vivibile per me. Averne il coraggio.

Un atto coraggioso può essere azzardato o rischioso, ma non è mai una bravata, lo spiega bene Valentina Fulginiti in un articolo che conservo appeso al mio altarino delle cose ricordevoli. Io propongo un passo ulteriore: il coraggio autentico anche quando è un atto individuale presuppone una collettività di riferimento, ed è in qualche modo un atto di restituzione di qualcosa di molto prezioso che dalla collettività si è ricevuto. Il coraggio è contagioso, esattamente come la paura, ed è per questo che si lotta, perché la paura amplifica il silenzio, la solitudine, l’immobilità, la rassegnazione; il coraggio al contrario è una forza plurale che si nutre di musica, danza, immagini, parole e le ispira. Ed ecco spiegata la forza di Lorenza, di Luca, di Turi, di Marisa, di Nicoletta e di tantissime altre.

«Nel pomeriggio del 5 settembre [2015], Turi aveva eluso la sorveglianza ed era apparso all’improvviso nel cantiere, a due passi dai poliziotti allibiti, a torso nudo e in calzoncini, la barba grigia, i capelli lunghi e caldi di sole, nelle mani una bandiera No Tav, inatteso e più che mai incongruo, come un ologramma, però tangibile. Prima che le guardie potessero battere le ciglia due volte, si era messo nella posizione yoga del Sîrsâsana o, più prosaicamente, “la verticale” […] il fotografo Michele Lapini aveva colto l’attimo.» (Wu Ming 1, Un viaggio che non promettiamo breve)

L’ho già detto e scritto altrove e non temo di ripetermi. Il valore della lotta è in sé. Non c’è un paradiso eterno di là da venire, messo in premio per «quando avremo vinto».
Etimologicamente il paradiso è un giardino e i margini che abitiamo – valligiane e valligiani, frocie, abitanti delle periferie, migranti, escluse, esclusi – si trasformano in giardini ogni volta che ci opponiamo alla violenza dello Stato, del capitale e dell’eteropatriarcato. Sono giardini fragili i nostri, come quelli descritti da Clément nei suoi libri: plurali, compositi, permeabili, effimeri ma rinnovabili, in continua trasformazione e ridiscussione, immersi nel conflitto e nel confronto. Ogni centimetro, ogni minuto di questi paradisi, ci fa desiderare di lottare ancora, perché fuori di lì – lo chiamino pure ordine, normalità, «la vita così com’è», l’inevitabile, l’ineluttabile, l’immutabile – c’è la sopraffazione, la paura. L’inferno. Mordor.
L’ho accennato prima, e quando avrò di voglia di scrivere un pezzo comico, approfondirò: in quella trappola del self-helping, del tirarsi fuori da sola, dei leader motivazionali, per una breve stagione, ci sono caduta anche io. Magari funziona, ma io non ci credo. Credo nel mettere a disposizione le proprie abilità e nell’osservare di quali meraviglie siano capaci le altre persone.

Chiedete a Claudio Giorno quanta fatica gli sia costato e quanto piacere gli abbia procurato mettere il primissimo tracciato del TAV su un lenzuolo lungo 12 metri, perché in Valle si potessero davvero rendere conto di dove passasse e cosa tirava giù al suo passaggio.

Chiedete alle persone che li fanno a ogni iniziativa cosa significhi impastare e cuocere e guarnire biscotti a forma di cuore con scritto NO TAV.

Chiedete ad Alberto Poggio e Luca Giunti – dico loro perché li conosco meglio – se e quanto si divertono quando vanno in giro a fare i tecnici No Tav.

Chiedete a chi cucina e serve perché lo fa. A chi mette su il vin brulé; a chi smazza i volantini; a chi regala dieci chili delle patate che ha coltivato; a chi ogni settimana, da sette anni, organizza un’apericena ai cancelli del fortino; a chi sta provando a costituire un centro di documentazione No Tav.

Non è già un mondo altro? Una prospettiva di condivisione e di collaborazione: la conferma che esiste una dimensione in cui lavoro e piacere possono coincidere? Non si intravede già un tempo diverso da questo in cui bisogna nascondersi, incatenarsi a situazioni, facciate, e occupazioni abiette?

Prestarsi a fare quel che si sa, godere dei saperi altrui, sperimentarsi in ciò che non si è mai fatto e stupirsi di ciò che ci accade intorno e di come diventiamo ogni giorno, sempre più noi stesse, noi stessi. Sono questi i benefici della lotta quando è inclusiva e paritaria: trasforma – qui chioso le parole di Audre Lorde – il silenzio (la sottomissione, la negazione degli individui) in linguaggio e azione.

Io oggi sono qui. Guardo indietro a questi 15 anni di militanze varie e vedo i sentieri che ho percorso con questo complesso di materia, emozione e pensiero che è il mio corpo. Ogni passo una trasformazione. Ogni incontro un sorriso. La transizione non ha fatto ricominciare da capo la mia vita, non sono morta e rinata: è stato un processo lungo, tortuoso, sghembo (queer!) quanto vuoi ma unico. Ora inspiro e sono pronta a mettere un piede davanti all’altro piede davanti all’altro piede davanti all’altro piede…

L’8 dicembre tutte e tutti a Torino! Partenza alle h.14 da Piazza Statuto e poi in marcia verso Piazza Castello. Tenetevi le “madamin”, viva le frocie! Disegno originale di Zerocalcare, “frocizzato” da Eugenio Nittolo.

Ancora una cosa

Porpora

Nel suo ultimo lavoro L’aurora delle trans cattive (Alegre, 2018) Porpora Marcasciano dice che non siamo noi transgender ad avere la disforia di genere, ma è la società ad avere una disforia nei nostri confronti.

Non siamo noi che dobbiamo integrarci o essere accettate: è il patriarcato eterosessista che va combattuto, è la società che deve cambiare ed essere a misura di tutte e tutti.
Raccontare, raccontarsi, uscire dalle cornici avvilenti, denigratorie e violente delle narrazioni mainstream è – né più, né meno – uno strumento di lotta. È con questo spirito che ho scelto di condividere un pezzo della mia storia.

Una scelta così non si matura in dieci minuti ed è sempre il frutto di molteplici spinte. L’ultima pedata nelle terga – ma data con una zeppa! – me l’ha assestata Tra le rose e le viole (manifestolibri, 2002) un libro di interviste a persone trans raccolte da Porpora.
Abbiamo bisogno di immaginari diversi. Le sessualità, le identità, le prospettive e le possibilità relazionali e sentimentali sono assai di più di quante il paraocchi patriarcale consenta di vederne. Abbiamo bisogno di ascoltare storie diverse. Sì Trav!

Ringraziamenti
L’acquisto collettivo di terreni in cui si prevede giunga lo scarpone del nemico è una delle pratiche adottate nel corso degli anni dal movimento No Tav. È un sovvertimento: la proprietà privata viene svuotata del suo senso esclusivo, trasformata in gestione e partecipazione responsabile. Le parole di questo testo mi appartengono in maniera astratta e puramente nominale. Sono il mio metro quadrato in un terreno condiviso da diverse comunità, un ramo in una fascina di storie e azioni collettive e non esisterebbero senza l’aiuto e il supporto, lo stimolo del Coordinamento dei comitati No Tav della Valsangone e della Collina morenica, di Fornelli in lotta, di Ah, SqueerTO! Assemblea transfemminista queer Torino, di Alpinismo Molotov, della Wu Ming Foundation tutta.

Sono stata accompagnata da molte persone nella stesura e nella revisione del racconto, dovrei fare troppi nomi e rischierei di dimenticarne qualcuno, mi limito a dirne due: Franco Berteni e Mariano Tomatis coi quali mi sono confrontata ogni santo giorno nelle ultime settimane. Grazie infinite a tutte e tutti e tuttu.

Un ringraziamento speciale, infine, a Sara e Miriam, mie principali supporter e sopporter in questo viaggio niente affatto straight.

 

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