“Bimbi in carcere, la pena scontata da chi non ha colpe”

Credo che il sito di Ristretti.it sia ora abbastanza conosciuto da chi segue questo bloggino, e forse qualcuna/o avrà scelto di iscriversi alla newsletter. Da oggi si cambia: un articolo al giorno notiziario dal e sul carcere di Ristretti.it (qui). Oggi vi propongo l’articolo di Antonio Mattone “Bimbi in carcere, la pena scontata da chi non ha colpe” tratto da Il Mattino. Le immagini e il video sono scelti da me.

Il Mattino, 23 ottobre 2017

“Non chiudere, non chiudere!”, urlava il bambino alla poliziotta penitenziaria che al termine della giornata doveva far rientrare in cella il minore con la madre detenuta. Una scena straziante che si ripeteva tutte le sere. Invece la figlia di una straniera, reclusa nel carcere di Avellino, appena entrata in prigione con la madre, aveva smesso di parlare e di sorridere. Comportamenti diversi di piccole esistenze che in questi anni sono state rinchiuse negli istituti di pena senza aver commesso un reato, ma che usciranno da questa esperienza con un trauma indelebile.
Sono i bambini dietro le sbarre, che scontano una condanna assieme alle loro madri. Le colpe delle madri ricadono sui figli. Mai detenzione è stata così ingiusta. Una vicenda che resta nell’ombra, delle galere e delle coscienze, ma che è venuta alla ribalta il mese scorso grazie a Radio Radicale, che ha dato la notizia di un bimbo di un anno che, nel carcere di Gazzi a Messina, ha ingerito un topicida collocato da un agente, perché il reparto era evidentemente infestato dai ratti. Figlio di una donna nigeriana, condannata per il reato di immigrazione clandestina, è stato ricoverato d’urgenza in ospedale e, dopo essere stato dichiarato fuori pericolo, è potuto tornare in carcere da sua madre.
Il 30 settembre scorso erano sessantacinque i bambini rinchiusi negli istituti di pena italiani, di cui trentasei stranieri, distribuiti in tredici strutture della penisola. Trentuno vivono all’interno dei penitenziari, nei reparti denominati “nido”, mentre gli altri risiedono nei quattro Icam (Istituti a custodia attenuata per le detenute madri) di Venezia, Milano, Torino e Lauro di Nola, mentre quello di Cagliari resta vuoto.
Queste strutture, istituite da una legge approvata nel 2011 ed entrata in vigore nel 2014, prevedono la detenzione in un ambiente accogliente e meno oppressivo delle galere. Qui le detenute che non sono sottoposte ad esigenze cautelari dovute a gravi reati, possono tenere con se i figli fino a sei anni e non più fino a tre come invece avviene per chi resta in carcere. Tuttavia, pur avendo un aspetto esteriore più a misura di bambino, restano luoghi di contenimento, delle prigioni a tutti gli effetti.

L’ICAM di Lauro (AV). “…. Forse si potrebbe pensare ad una terza via, come la possibilità di scontare la pena in Case famiglia protette che sono pur previste dal provvedimento legislativo del 2011, di cui ne esiste solo una a Roma….”

Emblematico è il caso di Lauro, dove una efficiente e funzionale struttura a custodia attenuata per tossicodipendenti è stata smantellata e riconvertita in Icam, con la modica spesa di 600mila euro, lasciando scoperto un servizio di cui c’è un grande bisogno, visto che circa un terzo dei detenuti italiani ha problemi legati all’uso di sostanze stupefacenti. Con i nuovi arrivi di pochi giorni fa l’Icam campano si è popolato di 5 madri e 6 bambini, ma è evidente che si tratta di un progetto sovradimensionato che difficilmente raggiungerà la capienza prevista di 35 posti. Era proprio necessario spendere tutti questi soldi pubblici per una struttura che non funzionerà mai a pieno regime e che ha di fatto lasciato sguarnito un importante presidio?
La detenzione dei minori in strutture carcerarie è una pratica contraria ai diritti umani. Hanno volti spenti ed occhi tristi questi bambini, il loro sguardo sbatte sempre contro un muro. Vivono seguendo i ritmi del carcere e non quelli propri della loro età. Privi del calore di una famiglia, si abituano alle urla e ai rumori della galera, crescendo aggressivi e rabbiosi. Imparano i termini del linguaggio carcerario, come andare all’ora d’aria, la matricola, l’udienza e tanti non hanno mai visto il mare. “Perché mi chiudono a casa quando torno a casa?” chiedeva il piccolo Giacomo recluso a Sollicciano ad un compagno di classe.
Se poi accade che si devono ricoverare in ospedale, come il piccolo di Messina, ci vanno da soli, senza madre. Anzi accompagnati dagli agenti che poi a turno gli fanno compagnia.
Io non so se per i bambini è opportuna una permanenza più lunga in un luogo chiuso come gli Icam accanto alla madre, o piuttosto farli restare “solo” nei primi tre anni di vita nei nidi per poi restituirli ad una vita normale, pur senza la presenza materna. In ogni caso il distacco dalla madre a tre o a sei anni rappresenta un ulteriore trauma.

Forse si potrebbe pensare ad una terza via, come la possibilità di scontare la pena in Case famiglia protette che sono pur previste dal provvedimento legislativo del 2011, di cui ne esiste solo una a Roma. Penso anche al progetto delle case di accoglienza di associazioni di volontariato e di istituti religiosi promosso dagli ispettori dei cappellani delle carceri italiane. Una iniziativa finanziata dalla Cei che in 4 anni ha coinvolto 27 donne con i loro figli e che è costata appena 30 euro al giorno per ogni mamma, e che attende nuove risorse economiche per poter continuare.
Spendere i soldi in case famiglia invece che in Icam, con un esiguo numero di detenute coinvolte, che per lo più devono espiare piccoli reati, può rappresentare la fine di una condanna emessa senza una sentenza. Intanto, al quarto piano del padiglione Roma del carcere di Poggioreale campeggia ancora la scritta “passeggio bambini”, a memoria di una vergogna non ancora cancellata.

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