Dirò subito che li per lì leggere che “Anche Picasso era un migrante” mi ha fatto storcere il naso. Poi mi sono detto che non devo farmi condizionare dal fatto che quel termine ormai da decenni dolore ci ricorda che si parla di migliaia di donne, uomini e bambini che fuggono da guerre e miserie – frutto del saccheggio di risorse e del colonialismo che la “civile” Europa ha saputo infliggere ai popoli africani, e non solo – alla ricerca di una vita migliore. E che troppo spesso la vita la perdono.
Prima di tutto cominciamo col dire il nome completo dell’artista malagueño (Fonte Wikipedia): Pablo Diego José Francisco de Paula Juan Nepomuceno Maria de los Remedios Cipriano de la Santísima Trinidad Ruiz Picasso (Malaga, 25 ottobre1881 – Mougins, 8 aprile 1973); è comprensibile che l’artista abbia scelto di essere chiamato solo Picasso.
Tanti gli aneddoti che lo riguardano, e tra questi c’è l’arresto seguito da processo con l’accusa di aver rubato la Gioconda: ad accusarlo fu Guillaume Apollinaire. L’artista venne poi assolto. Si dice che questo episodio abbia ispirato una famosa battuta di Picasso: “Amici, vado al Louvre, vi serve qualcosa ?”
L’autore del furto risultò essere Vincenzo Peruggia, l’operaio al servizio del Museo che aveva posto il quadro nella sua nuova teca e proprio grazie a questo sapeva bene dove mettere le mani, i turni delle guardie e le migliori strade da seguire per uscire dal museo indisturbato.
Ma veniamo all’articolo di Federico Giannini, cofondatore con Ilaria Baratta di Finestre sull’Arte, che ci propone la recensione della mostra “Picasso lo straniero”, a cura di Annie Cohen-Solal (Milano, Palazzo Reale, dal 20 settembre 2024 al 2 febbraio).
“La storia delle Demoiselles d’Avignon, che è tra i capolavori fondanti dell’arte del Novecento, può esser presa a eloquentissimo esempio dei danni che, nel campo delle arti, possono essere provocati dal nazionalismo più becero, più ottuso, più retrivo. È noto che il dipinto, inizialmente, non fu capito: venne tacciato d’immoralità e per lungo tempo non trovò acquirenti, tanto che la tela dovette giacere arrotolata nello studio di Pablo Picasso per otto anni dalla sua prima mostra. Era il 1916 quando le Demoiselles vennero esposte per la prima volta, al Salon d’Antin, e il pittore fu costretto ad aspettare fino al 1924 per trovare un compratore, grazie al tramite e all’interessamento di André Breton e Louis Aragon.
Picasso, negli anni Venti, era già diventato un pittore ricco e famoso, e aveva trovato un accordo con Jacques Doucet, uno dei padri della moda francese, gran collezionista d’arte, per una somma non altissima: 25mila franchi francesi, grosso modo 26mila euro attuali. L’opera valeva almeno dieci volte di più: lo storico dell’arte John Richardson, studioso di Picasso, ha ritenuto che l’artista avesse accettato una vendita a prezzo ribassato a seguito d’una promessa di Doucet, ovvero quella di destinare le Demoiselles, per volontà testamentaria, alle raccolte del Louvre. Doucet si considerava, almeno stando a quanto diceva Breton, l’unico collezionista in grado di persuadere il più grande museo francese ad accettare un’opera d’avanguardia.
Il problema però è che alla fine Doucet non incluse le Demoiselles nel suo testamento, col risultato che il dipinto venne poi venduto dalla vedova alla galleria Seligmann di New York. E venne infine acquistato dal MoMA, dove oggi milioni di persone lo ammirano. Lontano dalla Francia, lontano dalla terra in cui l’opera venne realizzata, lontano dal paese che aveva avuto l’occasione di trattenere in un suo museo pubblico uno dei capisaldi della modernità.
Perché l’opera non venne lasciata al Louvre malgrado le promesse? L’idea di Jean-Hubert Martin, curatore che ha lavorato per tanti anni nei musei nazionali francesi, è che la Francia non fosse disposta ad accogliere le Demoiselles. C’è un passaggio delle memorie di René Gimpel in cui lo storico mercante dei cubisti lamenta il fatto che “il Louvre ha rifiutato il suo Picasso, che è il più bel quadro del mondo. Al Louvre, al Luxembourg, nessuno del gruppo dirigente ufficiale vuole sentir parlare di Picasso. È odiato”. Dobbiamo immaginare che, negli abboccamenti tra Doucet e la dirigenza del museo, il collezionista avesse percepito la totale mancanza d’interesse nei confronti delle Demoiselles, e si fosse reso conto che un eventuale lascito sarebbe stato respinto.
Martin, nel catalogo della mostra Picasso lo straniero, è esplicito: “La partenza di Les Demoiselles d’Avignon per gli Stati Uniti è indicativa del conservatorismo artistico dilagante in Francia. In nome del nazionalismo e del genio francese, le istituzioni, sotto la tutela dell’Académie des Beaux-Arts continuarono tale politica tradizionalista”. Non è un’idea formulata tramite il filtro d’un facile presentismo: è un’ipotesi storicamente suffragata, legata a un clima che si respirava non soltanto in Francia; ma anche in Italia (ci si domandi perché, nei nostri musei pubblici, è rarissimo trovare dei Cézanne, dei Van Gogh, degli impressionisti, dei Picasso: la classe dirigente che governò i musei in Italia nei primi decenni del Novecento non era certo più acuta di quella francese). Un’ipotesi che ben s’attaglia anche alla storia personale di Picasso, raccontata nei dettagli più scomodi dalla mostra di Palazzo Reale, terza tappa d’un progetto nato da uno studio della curatrice Annie Cohen-Solal, partito nel 2021 al Musée National de l’Histoire de l’Immigration di Parigi, proseguito poi a New York da Gagosian, e infine giunto in Italia, al Palazzo Reale di Milano.”
Immagini della mostra al Palazzo Reale di Milano (20 settembre 2024/2 febbraio 2025)