L’Università, sempre più al servizio dei signori della guerra in nome della pace

Sabato 8 aprile, il quotidiano L’Adige dà la notizia di un incendio di origine dolosa verificatosi “nei laboratori della facoltà di scienze dell’Università di Trento, in via Sommarive a Povo. Nel rogo sono stati danneggiate alcune apparecchiature. Sul posto sono intervenuti i vigili del fuoco per spegnere il rogo. Accertamenti sono stati avviati dalle forze dell’ordine per individuare i responsabili. Pare che per far divampare le fiamme sia stata usata una Molotov“. (Il link è del giornale, ndr)

 

“«Cryptolab ricerca per la guerra»,  questa la scritta con vernice nera lasciata dagli attentatori sul muro esterno del laboratorio. Pare si tratti di un riferimento a progetti internazionali nell’ambito della sicurezza e della produzione di armi”, questo il cauto commento del redattore del quotidiano.

Di segno diverso le reazioni dei “potenti”. Il presidente della Provincia, Ugo Rossi: «… questa volta lo sdegno è ancora più forte perché colpisce intimamente le legittime speranze di una comunità di poter dare un seppur piccolo contributo per migliorare il mondo attraverso la ricerca. Noi vogliamo dire fin da adesso a studenti e docenti che siamo e continueremo ad essere dalla parte di chi costruisce e non demolisce il futuro».

Non è da meno il rettore Paolo Collini: «Chi ha compiuto questo gesto non conosce altro linguaggio che la violenza e la sopraffazione. Condanniamo chi vuole imporre in questo modo il proprio punto di vista. Il linguaggio che invece parlano la scienza e l’università è quello del dialogo, del confronto tra i diversi punti di vista. Trae la sua forza nella ricerca della verità, nei fatti e soprattutto nella ragione. Solo così, attraverso lo scambio di idee, è possibile un vero progresso».

Sdegno e indignazione sprizzano dalle parole dei due rappresentanti dell’establishment.  Ma siamo sicuri che stiano proprio “dalla parte di chi costruisce e non demolisce il futuro” e che il linguaggio della scienza  “Trae la sua forza nella ricerca della verità, nei fatti e soprattutto nella ragione. Solo così, attraverso lo scambio di idee, è possibile un vero progresso”?

Leggiamo il comunicato sulla vicenda di “romperelerighe“:

Venerdì scorso sul giornale locale “L’Adige” è uscita un’intervista al Rettore dell’Università di Trento, Paolo Collini. Ecco alcune sue parole: “Dopo quello che è successo ad inizio aprile dovremo inevitabilmente cambiare qualcosa a Povo. Dovremo pensare a più restrizioni, forse anche a blindare qualche area”, e poi “questi provvedimenti influiranno sul modo di lavorare e vivere la facoltà”. L’intervista continua poi con un riferimento a possibili cambiamenti ai protocolli sugli accessi all’università e al modo di conservazione di materiali e apparecchiature. La polizia ha fatto notare che gli edifici sono vecchi e vulnerabili, quindi spinge l’Ateneo a prendere provvedimenti riguardo alla sicurezza dell’area. Per fare tutto questo ci saranno finanziamenti extra, e qui entra in ballo la seconda parte dell’articolo. Il Consiglio Provinciale ha approvato il finanziamento all’Università di Trento di 183,8 milioni di euro, un 0,9% in più rispetto al 2015. Una cifra che va aggiunta alle tasse universitaria, ai finanziamenti dello Stato e ai proventi delle ricerche. Insomma l’Università ha tutto i soldi per ripagarsi le qualche centinaia di migliaia di euro di danno causati dall’attacco al laboratorio Cryptolab.

L’Università si mette sulla difensiva, si doterà di nuovi mezzi per una ricerca che, è stato svelato, s’intreccia con il mondo militare: Lor signori sanno bene che questo è un terreno d’affari, un terreno che non si può abbandonare: siamo in guerra. Quindi blindiamo l’università, in questo caso da chi rifiuta la guerra. Che dire agli studenti di quei laboratori? Se ora questi ragazzi e ragazze, che buttano la loro vita a studiare per le multinazionali della guerra, hanno una certa paura o un pensiero poco tranquillo nel momento in cui mettono un passo dentro quei laboratori, la cosa non ci tocca. Il nostro pensiero va a chi oggi viene bombardato dalle loro bombe, represso tramite i loro calcoli matematici, telecamere, microchip e ogni altro mezzo utile agli eserciti per perfezionare il loro ruolo di massacratori, a tutti e tutte quelle che oggi scappano da fame e massacri. A questi studenti e studentesse diciamo ancora una volta di disertare ed attaccare chi collabora con i signori dello sfruttamento e della guerra. Ai padroni dell’Università ricordiamo uno slogan vecchio ma sempre più attuale: “Nessuna pace per chi vive di guerra”.

Le tre iniziative di “romperelerighe” allo spazio anarchico El Tavan di Trento

L’asservimento delle università alla ricerca bellica non è, ovviamente, un problema di oggi. Il 23 gennaio 1987 si teneva a Roma l’iniziativa ‘Fuori la guerra dall’università’ di cui, grazie a Radio Radicale, possiamo ascoltare gli interventi di Paolo Di Vetta, Raniero La Valle, Francesco Polcaro, Ettore Biocca (clicca qui).

A proposito di Paolo Di Vetta ricordiamo il suo impegno nelle lotte per la casa – argomento su cui tornerò – per le quali, a lui e a Luca Fagiano è stata applicata la sorveglianza speciale. Qui potete leggere la sua lettera aperta sulla sorveglianza speciale.

Un altro documento interessante da leggere è questo opuscolo (clicca qui per scaricarlo)

 

“Studiare chi ci studia”, questo il significativo titolo iniziale dell’opuscolo:

“Il rapporto tra mondo universitario e apparato militare non è un fatto nuovo. Tuttavia, la trasformazione delle guerre in azioni di “polizia internazionale” permanenti porta a ridefinire e rinsaldare questo rapporto. Se la guerra diventa parte integrante della società democratica, l’Università assume il duplice ruolo di legittimare la presenza e la funzione dell’esercito e di fornire quel complesso di conoscenze e mezzi necessari ad un sistema sempre più complesso di produzione degli armamenti e gestione dei conflitti1 . Questo opuscolo è il risultato di una ricerca condotta a partire dall’autunno 2010 da parte di un gruppo di studenti e antimilitaristi di Trento. Il 28 Ottobre, alla Facoltà di Sociologia, mentre si stava svolgendo una conferenza sul tema della sicurezza e sul ruolo dell’Italia nelle “missioni di pace”, alla quale erano invitati due ufficiali dell’esercito e un docente di giurisprudenza, alcuni antimilitaristi irrompevano lanciando contro di loro fumogeni e vernice rossa. Un nostro amico, Luca, veniva arrestato e poi condannato a 6 mesi di reclusione. In seguito a questa azione, ed alla conseguente stigmatizzazione mediatica, si apprendeva che uno dei due militari era il capitano Pierpaolo Sinconi, capo ufficio affari internazionali del Coespu di Vicenza, una struttura in cui i vertici dei carabinieri addestrano eserciti di altri paesi alla contro-guerriglia e alla contro-insurrezione. In un processo di ribaltamento della realtà, militari di professione, responsabili dell’addestramento alla repressione, alla tortura e all’uso del terrore, vengono invitati in Università a parlare di pace e violenti e fascisti diventano coloro che li contestano.”

Chiudo questo primo articolo sul tema “guerra” con un’intervista che non potrà non stupire, non fosse altro per la testata che l’ha pubblicato. L’intervistato è Maurizio Simoncelli, Vicepresidente e cofondatore dell’Istituto di Ricerche Internazionali Archivio Disarmo (IRIAD), e la testata è

mensile internazionale diretto da Giulio Andreotti dal 1993 al 2012!

L’intervista (clicca qui per leggerla) si conclude così:

C’è chi ha detto: una volta si facevano le armi per fare le guerre, ora si fanno le guerre per fare le armi…
Simoncelli: Da sempre l’uomo ha cercato di dotarsi di armi per affermare con la violenza la propria volontà. Così l’industria delle armi, in alcuni Paesi, è diventata nel tempo un enorme business. Oggi il sistema, così come denunciato da Eisenhower, ha la capacità di condizionare i rapporti internazionali, riuscendo a volte a spingere verso opzioni militari, anche quando queste non sono necessarie. Occorre vigilanza.”

 

 

 

 

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