Un itinerario antifascista – Il diario di Eliseo Rizzi

Nel presentarsi, il sito degli storici del Friuli occidentale affianca all’editoriale (qui) una poesia di Eugenio Montale tratta da Ossi di seppia (1925): “Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. In occasione del 25 aprile il sito ha pubblicato l’articolo di Michele Guerra che ci fa conoscere la figura del partigiano Eliseo Rizzi: “… Costretto in pochissimi anni a cambiare rocambolescamente posti di lavoro, città e status sociale a causa del ferreo sistema di ricatto sociale del regime, Eliseo delinea una narrazione nella quale l’oppressione economica precede la repressione politica, e quest’ultima rinnova costantemente le condizioni della schiavitù lavorativa….”

Buon venticinque aprile a tutte e tutti!

 

 

“Il diario di Eliseo Rizzi è un testo autografo, redatto intorno alla fine degli anni Cinquanta su un quaderno di uso scolastico.

La prima pagina con dedica del diario

La prima caratteristica, quindi, è che le memorie riportate dall’autore sono trascritte a posteriori, nel quid della riflessione critica e della rielaborazione autobiografica del dopoguerra.
Eliseo dedica i suoi ricordi al nipote Silvio Rizzi, nome di battaglia “Treno”, partigiano diciannovenne attivo nella Brigata Garibaldi del quartiere Rizzi di Udine.
Arrestato dalle SS il 26 gennaio 1945, Silvio sarà deportato nel campo di concentramento di Mauthausen, ove morirà due mesi dopo, il 25 marzo.
Solo di recente, la sua figura è stata omaggiata con la posa di una pietra d’inciampo presso l’abitazione in cui visse e nella quale, come vedremo, fu catturato.

Eliseo Rizzi con la divisa della polizia ausiliaria nel 1945. Come molti altri partigiani garibaldini, anche Eliseo sarà poi estromesso dal corpo, ben prima delle epurazioni di Scelba.

A differenza del nipote, però, Eliseo non viene ufficialmente inquadrato all’interno delle formazioni combattenti friulane.

La seconda peculiarità del diario appare perciò il singolare punto di vista dello scrivente: quello di miles ignoto di una Resistenza privata[1], di un antifascista senza nome di battaglia, che approda alla clandestinità non dopo una progressiva formazione ideologica o militare, ma a seguito di una paradossale sequenza di esperienze da proletario sfruttato.
Costretto in pochissimi anni a cambiare rocambolescamente posti di lavoro, città e status sociale a causa del ferreo sistema di ricatto sociale del regime, Eliseo delinea una narrazione nella quale l’oppressione economica precede la repressione politica, e quest’ultima rinnova costantemente le condizioni della schiavitù lavorativa.

In apertura del diario, gli ultimi “anni del consenso” del regime[2] vengono sinteticamente presentati come il trionfo del caporalato edilizio legato alle commissioni statali, in questo caso alla costruzione della linea ferroviaria Duino-Timavo (Si doveva portare pala e picco, dopo due ore di estenuante lavoro veniva lassistente o un geometra a misurare se si aveva raggiunto la capacità. Per chi invece non era riuscito veniva invitato in ufficio e licenziato. Questa è stata la verità! ).
L’ombra della persecuzione politica si allunga subito dopo.
Il 15 marzo 1939, Eliseo, al tempo disoccupato, viene convocato presso il “sotto settore fascista” del quartiere Rizzi, dove viene sottoposto ad un primo interrogatorio: l’accusa, mossagli da tre anonimi funzionari dell’Ovra, è di essersi semplicemente intrattenuto in una trattoria di Tavagnacco con altri antifascisti schedati, e di aver cantato con loro “Bandiera Rossa”.
Come corollario del clima intimidatorio instaurato, naturalmente, interviene la proposta di diventare delatore, rivoltagli da uno dei funzionari (mi disse: che io ero un bravo giovane di onesta famiglia e in più di vera fede fascista. Poi continuò: sappiamo che sei disoccupato e noi ti metteremo a lavorare. Però: guarda questi certificati penali. Questi sono tutti delinquenti e antifascisti!).

I “tondi” dei combattenti garibaldini del quartiere Rizzi di Udine

Eliseo nega, tergiversa e minimizza, perciò viene condotto nella sede udinese della polizia segreta, nella quale persino una piccola piuma rossa rimasta attaccata al suo cappello viene immediatamente scambiata per esplicito segno di adesione alla causa comunista.
Convinto di poter tornare in libertà a fine giornata, Eliseo rifiuta nuovamente ogni collaborazione, ma proprio per questa sua ostinazione viene infine tradotto nel carcere di Via Spalato, a Udine – luogo del celebre assalto del 7 febbraio 1945 da parte dei Diavoli Rossi di “Romano il Mancino” e del successivo eccidio di 29 partigiani, il 9 aprile sempre del 1945.
L’ingresso nella dimensione carceraria avviene all’insegna della burocratica privazione degli effetti personali, sequestrati e sostituiti dagli oggetti di uso quotidiano in cella.
Via Spalato per Eliseo è un regno tenebroso, interamente composto di echi e incorniciato dal ferro.

In suo soccorso, come in un canto dantesco, giungono delle voci dal buio: sono altri antifascisti, che comprendono la sua agitazione e lo tranquillizzano immediatamente, anche con dei pregevoli divertissements (Figurati io sono qui da due mesi E sai perché? Avevo un pacchetto con del pane dentro, e ad uno che mi chiedeva cosa conteneva risposi pan di Spagna, ma non di Franco il Caudillo, però. Su via disse queste cose non dureranno).

Dopo quasi due settimane, senza nemmeno essere certo che i suoi familiari fossero stati informati di quanto accaduto, Eliseo viene mandato a processo.

Davanti al Prefetto e alla Commissione Fascista (mi sembravano delle maschere come ai tempi dellinquisizione spagnola attorniati intorno al famoso inquisitore cardinale Torquemada) gli viene comminata la condanna ad un anno di confino, da scontare nella remota località di Carolei, in Calabria, ove l’autore viene condotto in ceppi, dopo un viaggio di ben trenta ore e il ritiro della carta d’identità.

Scorcio del carcere di Via Spalato negli anni ’40: la freccia indica il muro esterno sul quale vennero fucilati i 29 partigiani garibaldini e osovani, il 9 aprile 1945 (Archivio ANPI)

 

A differenza di quanto emerge nella stragrande maggioranza della letteratura epistolare dei detenuti antifascisti, il confino è per Eliseo il luogo di una vera e propria rinascita esistenziale.
Il piccolo comune della provincia cosentina, infatti, già spopolato a causa dell’emigrazione, è descritto come una sorta di microcosmo naturalistico ed affettivo, una comunità d’accoglienza che ripudia ogni isolamento ed ogni discriminazione degli oppositori in cattività.
Un mondo nel quale lo confinato (come lo appellano i ragazzi) trova persino nelle autorità locali – sindaco e comandante dei carabinieri – degli inediti sodali.

Pur ritemprato dal clima, dalle letture e dalle lunghe conversazioni, condotte anche con altri condannati antifascisti, Eliseo non distoglie lo sguardo di fronte alla misera condizione del bracciantato calabrese (Ho visto quella gente povera a lavorare la terra a colpi di zappa, le ho viste al raccolto del grano delle castagne e delle ulive. Erano retribuite £ 3 al giorno (pari a £ 300 oggi) e se qualcuno si metteva qualche oliva in tasca veniva subito denunciato ai carabinieri. Questa era lesistenza dei poveri braccianti che non avevano avuto la possibilità di emigrare come tanti altri nellAmerica del nord).

Il 15 marzo 1940, ad un anno esatto dal suo fermo di polizia, Eliseo viene rimesso in libertà e può tornare a Udine in treno, da uomo libero. Una volta giunto qui, viene però chiamato alle armi con insolita rapidità: e nonostante l’entrata in guerra dell’Italia in giugno, viene congedato molto presto, in agosto, per ragioni non esplicitate.

Reinserito nella vita civile, Eliseo si inventa giornalaio ambulante, ma anche in questo caso il fato ostile è in agguato – ed è pure un fato molto campanilistico…

Addetto alle vendite de “La Gazzetta del Popolo” di Torino, Eliseo riesce a ritagliarsi una buona clientela, soprattutto tra i bersaglieri di stanza a Premariacco, tradizionalmente legati all’orgoglio sabaudo, piuttosto che a quello fascista. Il problema è che, così facendo, compromette le vendite del giornale locale: “Il Popolo del Friuli”, distribuito direttamente dal postino del paese. Il quale per ripicca lo denuncia e lo fa convocare dal segretario comunale, che infine gli revoca la licenza di vendita e lo condanna nuovamente alla disoccupazione.

… chissà dove stava poi tutta questa concorrenza…

Nel novembre 1940, probabilmente sulla base degli accordi economici tra il regime fascista e il Terzo Reich, Eliseo si trasferisce a lavorare a Linz, in Austria, con altre migliaia di operai impegnati a costruire altiforni per l’estrazione della ghisa.

La condizione di aberrante sfruttamento (A noi ci davano il 25 per cento del salario, ma questo non era compensato ai sacrifici che tutti i giorni si faceva, presentandoci ogni mattina e rimanere quasi tutto il giorno a disposizione) è oltremodo peggiorata dalle distanze chilometriche fra le baracche abitative e il cantiere, nonchè dal terribile gelo che ben presto ghiaccia persino il Danubio (Quasi sempre erano dei vagoni di ferro da scaricare oppure da sistemare, dove le povere mani al contatto di questo si staccava la pelle delle dita insanguinando tutte mani doloranti, le orecchie si spaccavano per il freddo, i tedeschi avevano il paraorecchie, una specie di cuffia).

Veduta aerea del cantiere di Linz (anni ’30)

Molti degli operai italiani impiegati a Linz si accorgono allora che gli industriali tedeschi non rispettano i termini dei (mendaci) contratti di lavoro, quindi attuano una sorta di protesta collettiva all’interno del Consolato italiano di Villach.

Tra loro c’è naturalmente il nostro Eliseo, che insieme ad altri riesce ad avere un colloquio col vice console in persona.
Con atteggiamento paterno, comprensivo e diplomatico, il vice console ascolta ogni rimostranza, ma alla fine prospetta ad Eliseo l’amara realtà Guardi mi disse con dolcezza: Lei è giovane, se ritorna in Italia, viene richiamato alle armi e senzaltro inviato in guerra. Mi creda, sia qua!
Eliseo e gli altri operai rifiutano comunque di tornare a lavoro, quindi vengono rimpatriati.
E come ultima forma di ritorsione da parte del regime fascista, una volta giunti al confine di Tarvisio, devono subire una minacciosa perquisizione. Poi la P.S. ci rinchiuse in camera di sicurezza. Lungo interrogatorio individuale sul motivo del rimpatrio.
Scene che ci ricordano come la condizione della manodopera da esportazione in epoca mussoliniana fosse molto simile a quella degli attuali migranti, fermati sui confini della fortezza europa.

Acquisita una certa stabilità economica e lavorativa all’interno di un cantiere di Udine, Eliseo viene richiamato alle armi proprio nei giorni immediatamente precedenti l’8 settembre 1943.

Ormai avvezzo ai contrappassi della drammatica realtà di quegli anni, davanti alle scene di giubilo e di fuga dalle caserme scrive Io non mi lasciai trasportare da questo entusiasmo seppur sentissi come loro la fine di una guerra, mal incominciata, e mai sentita dal popolo.

È giunto finalmente, anche per lui, il battesimo del fuoco: il 9 settembre 1943 un gruppo di insorti friulani assalta il poligono del Cormor per fare incetta di armi da trasferire in montagna. Beh, non solo armi… Ho visto uno rotolare un fusto, la gente diceva che era pieno di cognac, un altro faceva correre un formaggio alto quasi come lui.
Il giorno dopo le strutture militari del poligono vengono date alle fiamme, poco prima dell’arrivo dei nazisti. Noi indisturbati per notti e notti, facemmo la spola con le armi che avevamo nascoste e che andavano a finire a Nimis. E formarono il primo battaglione (Friuli) comandante Calligaris.

Giacinto Calligaris “Enrico”, verrà ucciso in un agguato nazifascista presso Fagagna il 12 gennaio 1944 (Archivio ANPI)

Dopo la descrizione di una missione di collegamento, capitanata da una partigiana denominata “Roma”, e la breve cronaca del bombardamento di Udine del 29 dicembre 1944, giunge per Eliseo il momento più tragico della sua narrazione.

È la notte tra il 25 ed il 26 gennaio 1945.

Mio nipote Silvio dormiva fuori casa. Quella maledetta notte invece rimase a casa.

Dormiva nella mia stanza. Quella notte dopo aver parlato un poco prendemmo sonno. Quando ci svegliammo bruscamente al martellare della porta che quasi pareva crollasse a colpi di calci dei fucili delle SS tedesche.

Ci alzammo in fretta, coprimmo i letti, intanto che mio fratello andava a aprire, dissi a Silvio: forse cercano te, aprii la porta del granaio invitandolo a salire. Poi entrai in attesa, subito dopo entravano quattro ceffi fra cui un italiano in divisa SS, al comando di un brutto tenente che scassinava e rovistava borbottando, tenendo fra i denti una grossa pipa oro. Dopo aprì la porta del granaio dicendomi: c’è nessuno lì? Io tremando tutto risposi no. Lui fece qualche gradino accese la pila, la girò e rigirò in giro, e poi uscì. Io chiusi la porta dicendomi tra me: Silvio, lhai fatta. Subito dopo mi compariva mio fratello con mia sorella piangendo: Lo hanno portato via assieme la radio e altro…

Silvio Rizzi viene catturato mentre è intento a fuggire dalla parte esterna del granaio, probabilmente nel tentativo di evitare la perquisizione descritta.

Eliseo, nella disperazione dell’intera famiglia, raccomanda cautela, ma non immagina certo che un’altra pattuglia di SS giungerà a cercare anche lui, poche ore dopo. Grazie alla prontezza di riflessi del fratello, che confonde le SS dicendo loro che Eliseo Rizzi era stato appena portato via, lo stesso Eliseo può fuggire e mettersi in salvo sul tetto di una casa adiacente e poi nel pertugio di una finestra.

Il fratello, però, viene prelevato dai nazisti al posto suo, con palese intento di scambio. All’alba, quindi, Eliseo si trova nella tragica situazione di doversi “consegnare”, pena la possibile deportazione del familiare. Il fato stavolta è favorevole. Tenni duro e non mi presentai, e dopo qualche giorno lo rilasciarono.

Così ramingai per tutti gli ottanta giorni alla notte 30 aprile 1945. Dormii nelle stalle, nei fienili, nelle tamasse di granoturco, in camere ben arredate, mangiato al loro tavolo dividendo il loro per aggiungere al mio – nulla di eroico o marziale, come era stato detto all’inizio.

La storia della Resistenza è composta anche di (non) semplici latitanze, di clandestinità eterogenee, i cui attori sono (non) semplici linee di collegamento e comunicazione tra nomi di battaglia più altisonanti.
Eliseo, che un alias da combattente nemmeno ce l’ha, termina la sua esperienza di Liberazione con un semplice pensiero rivolto a quanti, anonimi o invisibili come lui, gli hanno consentito di sfuggire ai rastrellamenti, a rischio della loro stessa vita. A questi vada il mio impagabile debito di gratitudine.

Ma è un secondo e ben più grave debito, quello che suggella la chiusura del diario. Ancora una volta, immerso in nuovi festeggiamenti – stavolta definitivi – Eliseo non può gioire: solo l’idea del sacrificio del nipote, la cui immagine è paragonabile ad un quadro di Chagall, può consolarlo della perdita e mutarla in giustizia.

Intanto io e la mia famiglia non si era contenti. Silvio non tornava?
Silvio, il nostro Silvio non tornerà! Il suo spirito vola  assieme a centinaia di milioni che come lui si immolarono per salvare la pace e l’umanità, e cancellare dalla faccia della terra la più feroce crudeltà che la storia ricordi.

Si ringraziano Silvio Rizzi per la concessione del diario. Carletto Rizzi per il materiale storico. Samanta Franz per la trascrittura del testo.”

[1] Traggo questa metafora dalla poesia “Gloria militare” di Alfredo Giuliani

[2] Cfr. R. De Felice, Mussolini Il Duce – I. Gli anni del consenso (1929-1936), Einaudi, 2019.

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