Ricordo del partigiano Edoardo Arnaldi, uno dei pochi avvocati che non stavano al ‘gioco delle parti’

Nel suo editoriale su “Arivista anarchica (anno 10 n. 84 – giugno 1980 – luglio 1980) Paolo Finzi parla dell’inaudito, sino ad allora, attacco al diritto di difesa sferrato da Magistratura e Polizia che nel giro di poco più di un mese aveva portato all’arresto degli avvocati Edoardo Arnaldi, Gabriele Fuga, Sergio Spazzali e Rocco Ventre. Compagni, prima ancora che avvocati, “che non stanno al previsto gioco delle parti, che non si accontentano delle veline questurinesche, che pretendono di scoprire e di sapere troppo” e che per questo il potere intendeva stroncarne l’attività”.

In realtà l’attacco agli avvocati che non stavano al gioco delle parti – non embedded, si direbbe oggi – inizia molto prima, come ricostruisce questo articolo dell’avvocato Davide Steccanella su giustiziami.it.

Oggi voglio ricordare  Edoardo Arnaldi, non solo perché  é il 37° anniversario dalla sua morte ma anche in vista della ricorrenza del 25 aprile. Nato a Genova il 27 novembre 1925, Arnaldi fu infatti partigiano, poi dal ’49 avvocato civilista fino all’anno della svolta’ il ’69, in cui decise di dedicarsi al diritto penale ed alla difesa dei militanti di sinistra collaborando con Franca Rame al Soccorso Rosso.

Un impegno pieno e generoso, come si legge nel citato editoriale di Paolo Finzi: “…Arnaldi, Fuga, Spazzali e pochissimi altri non si sono limitati a curare con il massimo impegno possibile le strategie della difesa legale dei loro assistiti in vista e durante il processo, fino alla sentenza definitiva. Oltre che difensori degli imputati, essi sono stati difensori dei carcerati: ciò significa che non hanno abbandonato i loro difesi una volta terminato il processo, ma hanno continuato a fare la spola tra le carceri e le supercarceri d’Italia per raccogliere informazioni e denunce sulla brutale repressione di cui i “definitivi” soprattutto sono spesso oggetto. A costo di grandi sacrifici personali, hanno svolto questo lavoro di immenso valore umano e politico perché spinti dalla volontà di contrastare il disegno di annientamento del potere contro i suoi antagonisti, facendo sì che i pestaggi, trasferimenti in isolamento, ricatti e violenze di ogni tipo non restassero relegata tra le putride mura delle carceri, ma uscissero fuori a conoscenza dell’opinione pubblica. Lunghi viaggi in treno o in auto, snervanti attese per i traghetti per Pianosa, l’Asinara o la Favignana, tanti viaggi inutili perché nel frattempo il detenuto era stato trasferito, un continuo lavoro per far sì che il sistema carcerario non possa inghiottire nel nulla i detenuti scomodi: questo lavoro dei pochi difensori dei carcerati non poteva non disturbare profondamente i piani di normalizzazione del generalissimo. Sono bastati pochi arresti per quasi azzerare anni e anni di lavoro. Ed ora sono già qualche centinaio i detenuti rimasti senza difensore, senza nessuno a cui potersi rivolgere, perlopiù senza soldi, senza appoggi, spesso senza colpa alcuna. Ora che i loro difensori sono reclusi come loro, il potere sa di di poter giocare pesante senza dover temere fastidiosi ficcanaso e implacabili avversari…”.

Edoardo Arnaldi si è ucciso con un colpo di pistola il 19 aprile 1980, mentre era in corso una perquisizione dei carabinieri di Dalla Chiesa; l’accusa: partecipazione a banda armata, Brigate Rosse, su indicazione dell’infame Patrizio Peci, lo stesso che aveva reso possibile l’uccisione a sangue freddo di quattro brigatisti – Annamaria Ludmann, Lorenzo Betassa, Piero Panciarelli e Riccardo Dura – sorpresi nel sonno nell’appartamento di via Fracchia. Era il 28 marzo.

Accanto alla figura di Edoardo Arnaldi è giusto ricordare la moglie, Anna. Così la descrive Nicolò Pasero, nella sua testimonianza al Progetto Memoria (vol. 2, Sguardi ritrovati – Sensibili alle foglie) a pag. 255:

“Già, Anna Arnaldi. Una figura importante, per capire certi atteggiamenti del marito. Una preziosa collaboratrice, che appariva più concreta, più pratica, quasi una figura materna, dominante e protettiva, nei confronti di un uomo dai forti impulsi idealistici (ha mantenuto questo ruolo fino all’ultimo: era lei che, un attimo prima del suicidio, gli preparava la borsa per la prigione, con le maglie, le calze di lana). Penso che certi suoi atteggiamenti poco popolari tra gli amici – bisogna dirlo: non a tutti era simpatica – fossero originati, oltre che dal suo carattere spigoloso, anche da questo forte senso di responsabilità, al limite della possessività. Ma, per quanto mi è dato di ricostruire, la protettività non si dev’essere mai spinta fino all’essere impedimento, all’ostacolare le scelte del marito – condivise o meno che fossero. E questo non è poco, in un rapporto vissuto in situazioni così eccezionali”.

Ed ecco un altro documento, importante anche per capire questa donna: il racconto di quel drammatico giorno in una testimonianza resa nel giugno del 1980:
«Intanto voglio sapere perché non gli è stato impedito di suicidarsi. Io so soltanto che Edoardo, in quanto arrestato, era affidato alla loro custodia, alla custodia dei carabinieri appunto. Loro erano garanti della sua incolumità e sono stati proprio loro a non garantirgliela, la sua incolumità, E le spiego come. (…) Mentre era ancora in corso la perquisizione, i carabinieri spostano le pistole (che noi avevamo subito dichiarato di avere in casa) dal comò al tavolo della sala da pranzo e ci mettono uno di loro a fare la guardia. (…) Si figuri che un carabiniere prese in mano una pistola, quella con cui Edoardo si sarebbe sparato, e spostò il carrello, ma senza far cadere il proiettile. E così la pistola rimase col suo proiettile in canna. Poi non so cosa successe. So che ad un certo punto sentii il carabiniere rimasto di guardia alle armi dire: oh, qui manca una pistola. Proprio così: oh, qui manca una pistola… Dopo un attimo sento che dice: dov’è l’avvocato? E sento che corre verso il bagno, é un rumore come se qualcuno desse un calcio contro la porta. Poi il colpo… Dopo, solo dopo ho capito che era un colpo di pistola e che Edoardo si era ammazzato. Tutti l’avevano capito, io no: forse… non volevo capire. (…) Edoardo sapeva che un uomo malato come lui era, ih carcere sarebbe stato annientato… si sarebbe dovuto umiliare e mortificare… E questo, lui non lo poteva accettare. È stato coerente. Ha voluto cadere in piedi.
Certo io avrei preferito che lui morisse nel suo letto ma rispetto la sua scelta, e l’ammiro. E credo che non ci sia contraddizione tra quanto ho appena detto e la responsabilità che attribuisco ai carabinieri in relazione alla sua morte. Mi spiego: un conto sono le sue scelte e un conto sono le interferenze del potere nella sua vita e nelle sue scelte. Lui ammazzandosi si è negato alla loro barbarie, alla barbarie del potere; loro, non impedendone la morte, si sono sbarazzati di una persona scomoda. Ecco, questi sono due punti di vista molto diversi e inconciliabili per guardare alla sua morte, e io voglio che inconciliabili rimangano».

Un’altra testimonianza molto interessante è quella dell’ex brigatista Vincenzo Guagliardo in una testimonianza resa nel 1994, sempre per il  Progetto Memoria, nel Carcere di Opera (pagg. 253/254).

“Subito dopo l’esecuzione di via Fracchia, le forze dell’ordine andarono ad arrestare l’avvocato Edoardo Arnaldi poiché sulla base delle indicazioni di Patrizio Peci, egli ormai non poteva che essere un brigatista.
La nascita del « pentito » moderno fonda improvvisamente una nuova etica : la comunità non è più orgogliosa, (per se stessa) di avere piccole « zone franche » dove il medico, o l’avvocato devono restare impuniti e devono incontrare il fuorilegge in pericolo per la propria vita o libertà. I delicati contrappesi di una cultura costruitasi in secoli spariscano in un baleno. Le definizioni usuali che ne conseguivano per l’identità e la coscienza del singolo sbiadiscono, le parole dello storico o del filosofo vengono sostituite da quelle del giudice e del poliziotto, le quali stritolano, riducono, annullano ogni differenza nella semplice e immensa visione del complotto.

Devo qui confessare che Edoardo accettò, per esempio, di incontrarsi con me, mentre ero brigatista e latitante, perché considerava ciò un suo dovere nella sua … antiquata morale. I suoi modi, la sua voce, i suoi ragionamenti avevano una gentilezza d’altri tempi. Neppure io, all’epoca, ero cosciente dei cambiamenti avvenuti. Mi era parso dunque giusto incontrare quest’uomo onde dargli un aiuto economico per sostenere i suoi viaggi appresso ai compagni in carcere e ai loro casi. Non vedevo grandi rischi per lui.
Quando le forze dell’ordine arrivarono a casa sua per un motivo del genere, Edoardo chiese di andare un attimo in un’altra stanza, e qui si sparò un colpo di pistola e morì. Mi viene in mente la filosofia di Anders, secondo la quale l’essere umano risulta essere ormai un prodotto antiquato rispetto a ciò che ha costruito, rispetto ai suoi stessi prodotti. E a volte si ribella come può, aggiungo.
Va detto che Edoardo s’era rovinato economicamente per noi. Aveva accettato di difendere i brigatisti insieme a Sergio Spazzali, e si era ritrovato umanamente sempre più solo e senza più tanti clienti. Ma tutto questo non è niente perchè dei suoi beni svenduti penso che se ne fregasse. Il fatto è che stava pure male fisicamente : era diabetico e affetto dal morbo di Bürger, ragion per cui, quando lo rividi da clandestino, zoppicava vistosamente.

Provo ora ad interpretare il suo gesto anche se mi rendo conto dell’arroganza e dell’insufficienza di un tale tentativo di fronte alla complessità dell’essere umano che si suicida.
Edoardo era stato un partigiano, uno dei tanti che erano rimasti delusi dei risultati ottenuti dalla Resistenza. Perciò sviluppò verso i brigatisti dei complessi rapporti « paterni ». Disse in un’arringa che avevamo dovuto fare i conti con i limiti di quanto aveva ottenuto la lotta della sua generazione.
Perciò essendo ancora noi dei « ragazzi con il sangue nelle vene », avevamo dovuto cercare a modo nostro e come potevamo di finire ciò che lui e quelli come lui avevano provato a cominciare. Oserei dire che ci vedeva a errare da limiti suoi più che nostri… Penso che in questo tipo di affermazioni ci sia un ingiusto « complesso di colpa » verso se stesso, ma al tempo stesso e al di là di questo, un profondo senso storico, una coscienza della inevitabile e necessaria contraddittorietà dell’atto umano volto alla liberazione. Il limite viene individuato per rafforzare la solidarietà invece che per giudicare ; per non rinunciare al cammino.
Certo è che una persona come questa, trovatasi di fronte all’idea di finire in galera in quelle condizioni, avrà pensato più o meno: « Nelle mie condizioni fisiche finire in carcere significherà dover accettare umiliazioni per ogni cosa ».
Inoltre, c’era in lui l’uomo deluso dagli esiti della Resistenza che ora doveva fare i conti con un arresto dovuto a tradimento fondato – per giunta – su una malafede interpretativa impensabile fino a pochi anni prima. E c’era proprio uno dei suoi « figli » ideali che per cavarsela lo denunciava così. Qui l’uomo antico che era in lui si sarà ribellato : il vecchio amico dichiarato, ma non identico ai giovani brigatisti, non poteva accettare di essere così presentato e denunciato proprio da un brigatista delatore. E allora un uomo che sta male è orgoglioso, non ci sta ad accettare giorni umilianti per le sue condizioni fisiche e per una ragione del genere : un secondo tradimento dei suoi sogni. Allora va nell’altra stanza e si spara.
In un nuovo contesto, con altri pensieri più ricchi d’esperienza, bisognerà riconquistare le caratteristiche dell’ « uomo antiquato rispetto al suo prodotto », farlo rivivere”.

 

 

 

 

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