QUANDO L’URSS CESSÒ DI ESISTERE
Dopo la breve esperienza di giovane socialista lombardiano, sono stato a lungo “cane sciolto” prima di avvicinarmi al pensiero anarchico. Non sono quindi mai stato filo-sovietico, pur riconoscendone l’enorme merito nella sconfitta del nazismo. E ovviamente non sono stato vicino al PCI, data la sua sudditanza nei confronti di Mosca.
Quando la breve stagione della rivolta ungherese, nel 1956, venne pesantemente repressa dall’URSS avevo sei anni e ovviamente non ne seppi niente, la Rai era nata da poco più di due anni e a me interessava solo per le avventura di Giovanna la nonna del Corsaro Nero.
Il successivo intervento del “fratello sovietico” che portò alla repressione della rivolta cecoslovacca, nota come “Primavera di Praga” – iniziata il 5 gennaio 1968, quando lo slovacco Alexander Dubček divenne segretario del Partito Comunista di Cecoslovacchia, terminò il 20 agosto dello stesso anno – lo ricordo, anche per il clamoroso gesto suicida di Jan Palach.
Devo dire, comunque, che non ne compresi subito la portata ed il significato, “la mia coscienza politica era scarsa”, come canta Gianfranco Manfredi in Quarto Oggiaro Story . I tempi erano però maturi e l’anno successivo – con la strage di Piazza Fontana, la persecuzione degli anarchici e l’uccisione di Pino Pinelli in Questura – cambiò tutto nella mia vita, e credo in quella di centinaia di miglia di persone di ogni età. Seguì quindi il crescere della mia attenzione e simpatia per le donne e gli uomini della lotta armata, impegnandomi nel sostegno alle prigioniere ed ai prigionieri in carcere. Ma questa è una piccola, lunga storia che non so se meriti e comunque non so se saprò mai scriverla; parlare di me non mi viene facile, se non per piccoli flash back.
Tornando all’URSS ed alla sua dissoluzione, non posso che ringraziare una volta di più la rivista Il Mulino e la sua preziosa newsletter, per lo speciale “C’era una volta l’Urss” di cui quello che segue è il primo articolo firmato da Arkadij Dubnov, analista politico e autore di “Perché è crollata l’Unione Sovietica. I dirigenti delle Repubbliche raccontano” (Il Mulino, 2021).
Le fotografie che accompagnano lo speciale sono di Arthur Grace e provengono da Communism(s): A Cold War Album, un volume che uscirà in Italia nell’aprile prossimo. Ringraziamo Damiani editore per l’autorizzazione all’utilizzo. Autrici ed autori dello speciale sono: Laura Bianconi, Giovanna Cigliano, Rita Di Leo, Arkadij Dubnov, Marcello Flores, Grigorij Javlinskij, Mara Morini, Martina Napolitano, Arthur Grace.
Arkadij Dubnov (nella foto, ndr) ricorda quei giorni del 1991 e il ruolo che svolsero i dirigenti delle Repubbliche assoggettate al patchwork sovietico nel definire il passaggio al post-Urss.
Nel 1991, quando l’Urss si dissolse, mio figlio maggiore compiva 10 anni e le mie figlie non erano ancora nate. Mio figlio non si rese conto che lo stato in cui era nato stava scomparendo, d’altronde, ad essere sinceri, quale adulto aveva compreso all’epoca la vera portata di quanto era accaduto a Belaveža in dicembre, e dopo due settimane ad Alma Ata? Tuttavia, si ricorda bene l’estate del 1991. Aveva consumato i pantaloni in cui era cresciuto, e si aspettava di ricevere un paio di jeans nuovi per entrare in quarta a settembre. Mi aveva posto due ferree condizioni: non avrebbe mai portato la divisa della scuola e non sarebbe mai entrato a far parte dei pionieri. In quest’ultima, con mia grande meraviglia, non c’era alcuna ideologia. Solo che rimanendo al doposcuola aveva visto che dopo pranzo i ragazzi più grandi erano costretti a marciare e a scandire slogan indossando la cravatta rossa. E lui questo non lo voleva fare.
Molti anni dopo, quando gli ho chiesto se si ricordasse il putsch del Gkčp, mi ha risposto che quelle parole le aveva sentite da me più tardi: in quei giorni il padre non lo vedeva quasi. Tuttavia, si ricorda di qualcosa che lo stupì molto: invece dei suoi cartoni animati preferiti, alla televisione facevano vedere un noioso balletto, il «Lago dei Cigni». A mio figlio, come alla stragrande maggioranza dei sovietici, la «più grande catastrofe del XX secolo», se mai si è impressa nella mente, è per il «Lago dei Cigni», piuttosto che per le astruse notizie provenienti dalla Bielorussia e dal Kazakistan, dove erano riuniti degli alti dirigenti lontani dalle loro preoccupazioni quotidiane.
Io, invece, in quegli anni mi occupavo di giornalismo politico, ero viceredattore del settimanale «Demokratičeskaja Rossija» [Russia democratica] che ha avuto una breve vita da gennaio a dicembre di quello stesso 1991, e vedevo che il destino dell’Unione Sovietica era in gran parte deciso dalle contese di quei dirigenti, dal loro carattere e dalle loro ambizioni politiche. E per di più, dei dirigenti non solo di Mosca, ma anche di Kiev e di Vilnius, di Tbilisi e di Dushanbe, di Frunze (oggi Biškek) e di Kišinev. Queste contese avevo avuto la sorte di osservarle da una distanza ravvicinata.
Nel 1992, come commentatore politico di «Novoe vremja» [Tempo nuovo], mi ero ritrovato nel pool presidenziale di Boris El’cin. Lo accompagnavo nei suoi viaggi per le capitali dell’appena nata Comunità degli Stati Indipendenti (Csi), assistevo ai vertici della Csi e partecipavo anche alle riunioni presidenziali sulle questioni di questa Csi in qualità di esperto.
Di tante pezze – etiche, culturali e confessionali – era formato l’enorme patchwork della “coperta” sovietica che ricopriva un sesto della terraferma. una parte delle ex Repubbliche sovietiche ottenne per la prima volta la sovranità statale
Non serve ribadire di quante pezze – etiche, culturali e confessionali – fosse formato l’enorme patchwork della «coperta» sovietica che ricopriva un sesto della terraferma, né porre l’accento sul fatto che una parte delle ex Repubbliche sovietiche nel 1991, per la prima volta nella loro storia, aveva ottenuto la sovranità statale. Per molti dirigenti dei nuovi Stati l’indipendenza abbattutasi su di loro è diventata una sfida politica e una difficile prova personale. Anni dopo quegli sconvolgimenti, avremmo scoperto quanto fossero diverse e incompatibili le «tessere» che fino a poco tempo prima formavano un unico mosaico, e quanto sarebbero cambiati i bonzi di partito del giorno precedente, trasformandosi alcuni in tiranni medievali, altri in democratici mitteleuropei. Ma questo sarebbe successo più tardi.
Com’erano questi dirigenti negli anni Ottanta e Novanta? Come hanno accolto il crollo dell’Urss? Che ruolo hanno avuto in questo processo? Restavano a guardare, lottavano per l’indipendenza, temevano di perdere la loro poltrona, ordivano intrighi contro Mosca, o cercavano di entrare nelle sue grazie? Come si immaginavano la libertà e quali risorse – materiali, naturali, umane, intellettuali – possedevano quando si sono messi in cammino verso il proprio Stato indipendente? È chiaro che sbagliavano – non poteva essere altrimenti –, ma oggi sono pronti ad ammettere i loro errori, elencandoli uno per uno o, come l’attuale presidente russo, credono ancora di «non aver commesso errori di sistema»? Il nostro progetto con la Fondazione Egor Gajdar, consistente in una serie di conversazioni con i dirigenti delle repubbliche sovietiche in carica nel periodo tra gli anni Ottanta e Novanta, è nato per cercare di rispondere a tutte queste domande.
È vero, con molti di loro non sono riuscito a parlare: qualcuno non è più tra noi, qualcuno ha problemi di salute, alcuni sono in esilio. Ma tutti quelli che si sono resi disponibili hanno dimostrato un’impressionante memoria per i particolari. Così Mircea Snegur, che era presidente della Moldavia nel 1990, ha praticamente riferito parola per parola la sua conversazione con Michail Gorbaciov e Anatolij Luk’janov, dalla quale aveva compreso che se Kišinev si fosse rifiutata di firmare il nuovo Trattato di Unione, la Moldavia avrebbe dovuto affrontare il separatismo di Tiraspol (e così è successo).
L’ex leader lituano Vytautas Landsbergis ha affermato di considerare inaccettabile che gli domandassi quando ha pensato per la prima volta all’uscita della Lituania dall’Urss, perché non si può uscire da dove non si è mai entrati volontariamente.
Questo atteggiamento è radicalmente diverso dalla reazione agli eventi di Belaveža del cauto presidente kazako Nursultan Nazarbaev, che fino all’ultimo non ha riconosciuto il crollo dell’Urss, nella speranza, si dice, di diventarne il Primo ministro.
A proposito, né Nazarbaev, né il presidente dell’Uzbekistan Islom Karimov, i due dirigenti di quegli anni che hanno mantenuto il potere fino ad oggi, hanno risposto alla proposta di intervista della Fondazione Gajdar [Karimov è morto nel settembre del 2016, Dubnov gli aveva chiesto di rilasciargli l’intervista per il progetto molti anni prima, NdR].”