Nel 1991, quando l’Urss si dissolse, mio figlio maggiore compiva 10 anni e le mie figlie non erano ancora nate. Mio figlio non si rese conto che lo stato in cui era nato stava scomparendo, d’altronde, ad essere sinceri, quale adulto aveva compreso all’epoca la vera portata di quanto era accaduto a Belaveža in dicembre, e dopo due settimane ad Alma Ata? Tuttavia, si ricorda bene l’estate del 1991. Aveva consumato i pantaloni in cui era cresciuto, e si aspettava di ricevere un paio di jeans nuovi per entrare in quarta a settembre. Mi aveva posto due ferree condizioni: non avrebbe mai portato la divisa della scuola e non sarebbe mai entrato a far parte dei pionieri. In quest’ultima, con mia grande meraviglia, non c’era alcuna ideologia. Solo che rimanendo al doposcuola aveva visto che dopo pranzo i ragazzi più grandi erano costretti a marciare e a scandire slogan indossando la cravatta rossa. E lui questo non lo voleva fare.

Molti anni dopo, quando gli ho chiesto se si ricordasse il putsch del Gkčp, mi ha risposto che quelle parole le aveva sentite da me più tardi: in quei giorni il padre non lo vedeva quasi. Tuttavia, si ricorda di qualcosa che lo stupì molto: invece dei suoi cartoni animati preferiti, alla televisione facevano vedere un noioso balletto, il «Lago dei Cigni». A mio figlio, come alla stragrande maggioranza dei sovietici, la «più grande catastrofe del XX secolo», se mai si è impressa nella mente, è per il «Lago dei Cigni», piuttosto che per le astruse notizie provenienti dalla Bielorussia e dal Kazakistan, dove erano riuniti degli alti dirigenti lontani dalle loro preoccupazioni quotidiane.

Io, invece, in quegli anni mi occupavo di giornalismo politico, ero viceredattore del settimanale «Demokratičeskaja Rossija» [Russia democratica] che ha avuto una breve vita da gennaio a dicembre di quello stesso 1991, e vedevo che il destino dell’Unione Sovietica era in gran parte deciso dalle contese di quei dirigenti, dal loro carattere e dalle loro ambizioni politiche. E per di più, dei dirigenti non solo di Mosca, ma anche di Kiev e di Vilnius, di Tbilisi e di Dushanbe, di Frunze (oggi Biškek) e di Kišinev. Queste contese avevo avuto la sorte di osservarle da una distanza ravvicinata.

 

Nel 1992, come commentatore politico di «Novoe vremja» [Tempo nuovo], mi ero ritrovato nel pool presidenziale di Boris El’cin. Lo accompagnavo nei suoi viaggi per le capitali dell’appena nata Comunità degli Stati Indipendenti (Csi), assistevo ai vertici della Csi e partecipavo anche alle riunioni presidenziali sulle questioni di questa Csi in qualità di esperto.

Di tante pezze – etiche, culturali e confessionali – era formato l’enorme patchwork della “coperta” sovietica che ricopriva un sesto della terraferma. una parte delle ex Repubbliche sovietiche ottenne per la prima volta la sovranità statale

Non serve ribadire di quante pezze – etiche, culturali e confessionali – fosse formato l’enorme patchwork della «coperta» sovietica che ricopriva un sesto della terraferma, né porre l’accento sul fatto che una parte delle ex Repubbliche sovietiche nel 1991, per la prima volta nella loro storia, aveva ottenuto la sovranità statale. Per molti dirigenti dei nuovi Stati l’indipendenza abbattutasi su di loro è diventata una sfida politica e una difficile prova personale. Anni dopo quegli sconvolgimenti, avremmo scoperto quanto fossero diverse e incompatibili le «tessere» che fino a poco tempo prima formavano un unico mosaico, e quanto sarebbero cambiati i bonzi di partito del giorno precedente, trasformandosi alcuni in tiranni medievali, altri in democratici mitteleuropei. Ma questo sarebbe successo più tardi.

L’Accordo di Belaveža, noto anche come Accordo di Minsk, è il trattato che venne siglato l’8 dicembre 1991 e sancì la cessazione dell’Unione Sovietica  e istituì al suo posto la Comunità degli Stati Indipendenti (CSI).

Com’erano questi dirigenti negli anni Ottanta e Novanta? Come hanno accolto il crollo dell’Urss? Che ruolo hanno avuto in questo processo? Restavano a guardare, lottavano per l’indipendenza, temevano di perdere la loro poltrona, ordivano intrighi contro Mosca, o cercavano di entrare nelle sue grazie? Come si immaginavano la libertà e quali risorse – materiali, naturali, umane, intellettuali – possedevano quando si sono messi in cammino verso il proprio Stato indipendente? È chiaro che sbagliavano – non poteva essere altrimenti –, ma oggi sono pronti ad ammettere i loro errori, elencandoli uno per uno o, come l’attuale presidente russo, credono ancora di «non aver commesso errori di sistema»? Il nostro progetto con la Fondazione Egor Gajdar, consistente in una serie di conversazioni con i dirigenti delle repubbliche sovietiche in carica nel periodo tra gli anni Ottanta e Novanta, è nato per cercare di rispondere a tutte queste domande.

È vero, con molti di loro non sono riuscito a parlare: qualcuno non è più tra noi, qualcuno ha problemi di salute, alcuni sono in esilio. Ma tutti quelli che si sono resi disponibili hanno dimostrato un’impressionante memoria per i particolari. Così Mircea Snegur, che era presidente della Moldavia nel 1990, ha praticamente riferito parola per parola la sua conversazione con Michail Gorbaciov e Anatolij Luk’janov, dalla quale aveva compreso che se Kišinev si fosse rifiutata di firmare il nuovo Trattato di Unione, la Moldavia avrebbe dovuto affrontare il separatismo di Tiraspol (e così è successo).

L’ex leader lituano Vytautas Landsbergis ha affermato di considerare inaccettabile che gli domandassi quando ha pensato per la prima volta all’uscita della Lituania dall’Urss, perché non si può uscire da dove non si è mai entrati volontariamente.

Le elezioni del10 gennaio scorso, hanno rotto il monopolio del partito di governo ma resta una maggioranza schiacciante per Nazarbayev.

 

Questo atteggiamento è radicalmente diverso dalla reazione agli eventi di Belaveža del cauto presidente kazako Nursultan Nazarbaev, che fino all’ultimo non ha riconosciuto il crollo dell’Urss, nella speranza, si dice, di diventarne il Primo ministro.

A proposito, né Nazarbaev, né il presidente dell’Uzbekistan Islom Karimov, i due dirigenti di quegli anni che hanno mantenuto il potere fino ad oggi, hanno risposto alla proposta di intervista della Fondazione Gajdar [Karimov è morto nel settembre del 2016, Dubnov gli aveva chiesto di rilasciargli l’intervista per il progetto molti anni prima, NdR].”