Notizie dal Libano – Intervista con un membro del collettivo Buzuruna Juzuruna («i nostri semi, le nostre radici»)

Rilancio in tempo reale la lunga ed interessante intervista che il sito francese Lundi.am  ha pubblicato oggi con un membro del collettivo Buzuruna Juzuruna («i nostri semi, le nostre radici») che racconta del loro impegno a dimostrare che è possibile “creare piccoli sistemi relativamente indipendenti che funzionino in cerchio chiuso e che possano comunque produrre”.

La doppia esplosione di Beirut avvenne pochi minuti dopo l’intervista con Serge, così qualche giorno più tardi Lundi.am ha lo sentito per un aggiornamento sulla situazione nel paese:  lo trovate  in coda. L’immagine “Inferno Beirut” l’ho inserita io, prendendola da Fanpage

Foto: Charlotte Joubert per l’articolo e le foto della fattoria e Haera Slim per la foto della manifestazione; in ‘una’ (sullo striscione c’è scritto: “Andiamo/vogliamo seppellire la povertà e le sue cause”).

“Amici di Radio Zinzine, una radio libera del sud della Francia legata al movimento europeo Longo Mai, ci hanno trasmesso questa trasmissione realizzata all’inizio del mese di agosto sulla situazione in Libano. Radio Zinzine ha parlato con un amico libanese, Serge, membro di «Buzuruna Juzuruna» («i nostri semi, le nostre radici»), un collettivo nella valle della Bekaa che, tra le altre attività, produce semi contadini e li distribuisce in Libano.

Ripartendo dalla situazione politica ed economica del Libano a partire dagli anni ’90 e in particolare dall’inizio della rivoluzione nell’ottobre 2019, l’intervista mette in evidenza la pertinenza di una ricerca di autonomia, in particolare alimentare, in particolare quando lo Stato è in fallimento. La versione audio è disponibile qui e il seguente articolo è la trascrizione. Poiché la doppia esplosione del 4 agosto a Beirut ha avuto luogo contemporaneamente alla discussione, è stato necessario aggiungere un complemento che è anche trascritto qui.

Questo articolo è una trascrizione di estratti della trasmissione «Confins du Monde nº 30» di Radio Zinzine. Si tratta di un ritorno in Libano, poiché quattro mesi prima, all’inizio di aprile, è stata realizzata una prima «Confins» con Serge, un amico libanese. L’intervista è stata realizzata il 4 agosto 2020. Appena dieci minuti dopo l’inizio di questa intervista l’enorme doppia esplosione ha avuto luogo a Beirut. Serge solo scoperto questa catastrofe dopo la fine del colloquio e così pochi giorni dopo, il 10 agosto, abbiamo parlato di nuovo con lui.

Radio Zinzine: Ricordo che abbiamo già parlato con te quattro mesi fa, verso l’inizio della crisi del Covid 19 e la situazione era già molto difficile in Libano. Potresti iniziare presentando non solo te stesso, ma anche il progetto in cui sei coinvolto?

Serge: Lavoro in una fattoria che abbiamo creato con un gruppo di amici, tra cui alcuni di Longo Mai. La nostra attività principale è la produzione di sementi contadine, la loro riproduzione, conservazione e distribuzione. Facciamo anche altre attività. Abbiamo una fattoria scuola, diamo lezioni di agroecologia e tutto ciò che va intorno: compost, bio pesticidi,… Siamo socialmente impegnate con i libanesi, con i rifugiati siriani e con tutte le persone interessate a realizzare piccoli progetti o progetti più grandi, tutto ciò che ha a che fare con la sovranità alimentare.

RZ: Immagino che questo tipo di progetto, questo tipo di attività, stia diventando ancora più importante in una situazione di grave crisi economica.

S: Assolutamente. Francamente, sono felice di aver iniziato prima, ci permette di reagire un po’ più velocemente. Il Libano non è davvero la grande infrastruttura. È uno Stato in bancarotta, è davvero un fallimento. In questo momento, le politiche agricole degli ultimi trent’o quarant’anni hanno dimostrato i loro limiti e i loro pericoli. Quello che stiamo facendo ora è mostrare che le alternative esistono.

RZ: Penso che sia importante ridare il contesto, a partire da questa grande rivolta che è iniziata il 17 ottobre scorso. Riesci a ricordare le ragioni profonde di questa rivolta?

S: Bisogna cominciare dall’inizio, vuol dire la seconda parte della guerra civile che non era più una guerra armata ma una guerra in giacca e cravatta. Verso la fine della guerra civile, verso la fine dei combattimenti, nel 1991-1992, c’è stato un accordo tra le diverse parti in lotta. Sono atterrati tutti insieme e si sono divisi la torta. Dagli anni ’90, fino ad ora, sono quasi le stesse persone che sono al potere, con qualche cambiamento di volto di tanto in tanto, Ma sostanzialmente è un sistema che sembra una truffa piramidale dove si fanno entrare soldi o si prendono soldi che non esistono veramente, li si spendono e poi se ne chiedono di più. Di colpo il nostro paese è indebitato da questo sistema e in più dal neo-liberalismo.

Di tutto ciò che va male in questo mondo, si può trovare un esempio o almeno un’applicazione nel nostro paese. Sto parlando di corruzione, furto, un sacco di spese inutili. Tutto questo ci rende in questo momento in una crisi innanzitutto monetaria. Abbiamo un’economia che è fortemente dipendente dal dollaro americano. La nostra moneta è completamente svalutata e i prezzi sono aumentati, senza dimenticare che siamo anche alla mercé dei cartelli di importazione. Tutte le materie prime e gli alimenti sono importati su larga scala e controllati da piccoli gruppi che possono fare quello che vogliono dei prezzi. La cosa più importante da dire riguardo alla rivoluzione scoppiata il 17 ottobre 2019 è che quello era il momento in cui si sentiva arrivare la crisi. Il fantasma della crisi era lì dal 2018. Sentivamo che c’erano dei piccoli problemi ma non eravamo veramente informati. Improvvisamente, i prezzi hanno cominciato ad aumentare. Il governo ha deciso di iniziare a tassare le chiamate Internet gratuite e questo è stato il detonatore. E poi abbiamo tenuto duro per strada, abbiamo resistito per sei o sette mesi.

Poi c’è stato il Covid. Lo Stato e l’esercito hanno approfittato del fatto che le persone sono confinate per riprendere tutti i posti della rivoluzione, in tutte le città libanesi come se niente fosse. Ecco dove siamo ora. Ci sono piccole azioni, ma niente di grande portata. Abbiamo comunque potuto far dimettere il vecchio governo in piena rivoluzione. Chi è al potere adesso, che si definisce tecnocrate, non fa molto. Non ci sono realmente azioni strategiche o riflessioni a lungo termine su come gestire questa crisi. Siamo su un pendio, ed eccoci, lo scivolata si intensifica. Siamo passati da un dollaro per 1.500 sterline libanesi a un dollaro per 8.000 sterline libanesi, il che fa sì che la maggior parte delle persone abbia perso tre quarti del potere d’acquisto, se non di più.

RZ: C’è un interessante articolo sul sito Mediapart del 23 luglio, «La crisi del Libano è una crisi del neoliberismo»… In sostanza dicono che la crisi del Libano è una specie di caso di scuola, un paese completamente sotto il controllo del neoliberismo. Tutto lo Stato, l’intero sistema è messo al servizio di due settori: l’immobiliare di lusso e la finanza, quindi qualcosa di completamente artificiale.

S: È vero, abbiamo un sistema bancario che era molto orgoglioso di sè, che diceva che tutto andava bene e tutta la concentrazione finanziaria andava in questa direzione. Anche il settore immobiliare ha mostrato una certa fiducia, perché è un settore che dovrebbe essere protetto, è un investimento, ecc. Ora, i costi del settore immobiliare sono aumentati, direi, dieci volte tanto negli ultimi dieci o quindici anni. È una crisi profonda del neoliberismo, è la prova concreta che non si può avere una crescita infinita con una produzione o con mezzi finiti. Non c’è stata alcuna politica agricola, nessuna riflessione sull’industria. L’unica cosa che siamo in grado di fare in questo momento, come paese, è esportare manodopera qualificata, è solo questo che mantiene il sistema. Le persone che finiscono l’università vanno a lavorare nei paesi del Golfo o altrove e mandano soldi ai loro genitori.

RZ: Immagino che questo periodo di crisi sanitaria abbia avuto un forte impatto in questo campo, come per molti paesi, dove la quantità di denaro inviato nel paese è stata molto ridotta perché ci sono molte persone disoccupate e poi l’attività economica è quasi cessata…

S: Sì, molte persone hanno perso il lavoro e sono dovute tornare in Libano. Il flusso di denaro non è più lo stesso e il debito ha continuato ad aumentare. Ho letto di recente articoli sull’ingegneria finanziaria in cui apparentemente i grandi azionisti delle banche, il governatore della banca del Libano, il ministro delle Finanze e il ministro dell’Economia hanno gonfiato alcune cifre e ridotto altre, era tutto virtuale per fare profitti. Alla fine, sono i depositi delle persone, le piccole pensioni che sono state mangiate in tutto questo.

RZ: Leggendo questo articolo di Mediapart, si ha davvero l’impressione di tornare indietro di qualche decennio, in un paese come l’Argentina. Si tratta di nuovo di cercare una linea di credito di diversi miliardi di dollari al FMI e se si vuole avere questo credito, bisogna accettare le famose riforme, il «consenso di Washington»: la diminuzione delle spese pubbliche, il licenziamento dei funzionari…

S: Come popolo, come figli della rivoluzione, sappiamo molto bene cosa significa dover fare affari con il FMI e dover rientrare in tutto questo sistema di austerità ed essere completamente assoggettati a Washington, e d’altra parte abbiamo tutti questi «politicanti» che ci dicono che questa è l’unica soluzione, prendere in prestito ancora di più, quando è completamente falso.

Abbiamo settori che possono essere molto produttivi, possiamo davvero gestire la cosa in modo diverso. Per il momento non siamo in minoranza, ma in debolezza rispetto a un sistema mafioso che esiste da almeno trent’anni, che è radicato, che è entrato in tutte le istituzioni dello Stato. C’è un grande braccio di ferro tra noi, tra il popolo e il governo che vuole comunque continuare… Non so se conoscete la situazione di Bisri dove vogliono costruire una diga. È una regione di circa 6 milioni di metri quadrati, che doveva diventare una riserva naturale, una sorta di altopiano tra due montagne. È esattamente su una linea di faglia sismica. Ci sono molte rovine, è molto ricca di biodiversità, è molto bello. C’è una parte che è piantata, dove c’è lavoro agricolo, un’altra parte che è boscosa. Il governo vuole prendere un prestito dal FMI per costruire una diga che blocchi il fiume che passa su questo altopiano e quindi allagherebbe completamente tutto l’altopiano solo per poter portare una quantità incerta di acqua alla capitale Beirut.

Ci sono soluzioni molto più economiche e molto più efficaci, come ad esempio la riparazione dell’infrastruttura. Tutti i partiti che sono al potere o che gravitano intorno al potere stanno spingendo per la costruzione di questa diga su una faglia sismica che non servirà a molto, perché sappiamo che il terreno lì non sarà in grado di trattenere l’acqua. Costerà circa 1,2 miliardi di dollari, un progetto enorme che non ha senso. Guardate l’esperienza con gli altri progetti di diga che sono stati fatti finora in Libano. Ce ne sono cinque che sono stati quasi completati. Dovevano essere finiti quattro o cinque anni fa. L’ultimo dovrebbe essere chiuso presto ma con enormi ritardi, con enormi superamenti del bilancio, e con risultati terrificanti. Abbiamo cinque dighe che non trattengono acqua, il che è grottesco…

RZ: Qualche tempo fa abbiamo parlato del Messico, e in questi momenti di crisi anche economiche, non solo sanitarie, il presidente del Messico è completamente ossessionato da progetti molto grandi, enormi, è un po’ la malattia di questi governi…

S: Esattamente. Quello che si gioca dietro è davvero clientelismo perché un grande progetto porta un po’ di gloria se funziona, ma è soprattutto un sacco di soldi che viene utilizzato per i contractor che sono amici dei politici. In realtà è denaro che viene ridistribuito alla catena del clientelismo. Riesco a recuperare un miliardo di dollari che fingo di usare per una diga. La diga mi costerà tre miliardi invece di uno, spenderò e donerò qua e là, è così che funziona il sistema.

RZ: Bisogna dire che questo modello è purtroppo sostenuto a livello internazionale: il ministro degli Esteri francese, Jean-Yves Le Drian si è recato in Libano in luglio. Insiste sul fatto che si può aiutare il Libano, ma bisogna che faccia veramente le riforme necessarie…

S: Francamente, non sorprende che un ministro degli esteri di un governo che non fa altro che neoliberismo sia d’accordo con questo tipo di parole, con questo tipo di modo di fare le cose. Le grandi potenze, o le grandi imprese sostenute da queste grandi potenze, vorrebbero fare affari in tutto questo. Improvvisamente, per loro è molto importante che lo status quo sia mantenuto, che il «business as usual» continui, che ci sia del denaro che entra, che sia investito in progetti ridicoli che non servono a nulla, ma che suonano bene o che sono appetitose sulla carta e tutti sono felici. Ciò contribuisce al funzionamento globale di questo sistema.

RZ: Puoi spiegare un po’ come sta andando in Libano rispetto alla crisi del coronavirus? Ho guardato le cifre oggi, che danno 65 morti e un po’ più di 5.000 casi, che a priori sembra molto meno rispetto ad altri paesi, ma sembra che gli ospedali siano sovraccarichi.

S: Assolutamente, siamo un piccolo paese con 5/6 milioni di abitanti al massimo contando i rifugiati e i lavoratori migranti. Già bisogna sapere che il sistema sanitario pubblico non è il migliore del mondo. In un tale sistema neoliberale tutta l’energia è stata messa dal lato del privato. Abbiamo ottimi ospedali con un livello di salute molto alto quando abbiamo soldi. Gli ospedali governativi hanno meno soldi. Sono sottoequipaggiati, sottofinanziati e non saranno in grado di sopravvivere a una grande ondata. Un po’ di tempo fa siamo arrivati a zero casi per due o tre giorni. Il governo si è detto che ora dobbiamo fare soldi. Quindi hanno riaperto il Bled (ndr, termine che non so tradurre). Bisognava aspettare. Ora abbiamo decine di casi al giorno. Abbiamo un giorno cento, un giorno sessanta, e sarà esponenziale. Non c’è modo di sfuggire a questo, credo. Il che significa che saranno gli ospedali privati a rimediare a questo vuoto e gli ospedali privati vogliono fare soldi. Quindi ci sono persone che moriranno perché la maggior parte delle persone in Libano non hanno soldi.

RZ: ci sono molte critiche da parte dei responsabili sanitari ma anche dalla società perché il governo ha effettivamente deciso di riaprire le spiagge, i ristoranti, i locali notturni, …soprattutto per ragioni economiche.

S: Questa è la stagione in cui gli espatriati tornano in Libano per spendere i loro dollari. È importante per il governo che ci siano dollari che rientrano. Ma è mettere una piccola benda su un braccio amputato. Non serve a niente, non fermerà l’emorragia. Ma potrebbe essere un modo per vincere 4 o 5 settimane prima della grande caduta che sta per arrivare. Qualche giorno fa c’è stata una ricostruzione, tutto era chiuso più o meno ma non in tutte le regioni, non dappertutto, poiché la presenza dello Stato non è ovunque la stessa. Ci provo, non funziona, provo qualcos’altro. Non c’è niente di logico in questo comportamento. Siamo stati in isolamento per tre mesi e ha funzionato più o meno, e ora, se guardi da lontano, non ha senso. Sono tre giorni di isolamento e due giorni di riapertura, è ridicolo.

RZ: Secondo un giornale francese il sistema ospedaliero pubblico rischia di crollare. Ma gravemente colpiti dai licenziamenti di massa, il personale ospedaliero sciopererà mercoledì 5 agosto, quindi domani…

S: Gli scioperi sono soprattutto mezzi per fare pressione, spero che funzionerà e che ci sarà sciopero. Ma la maggior parte delle volte, poiché i nostri sindacati sono completamente corrotti e stanno al gioco del potere, la maggior parte del tempo, si sistemano. Trovano compromessi e pagano dove si deve pagare… Abbiamo già avuto un primo decesso nel nostro corpo medico qualche giorno fa, un’infermiera. Comincia ad andare male, ma francamente non so come andrà a finire. Vedremo domani.

RZ: Di fronte al fallimento di un sistema economico e politico, questa incredibile condivisione di una torta cattiva si potrebbe dire, quindi c’è stata questa rivolta considerevole a partire da ottobre…

S: Sì, ci abbiamo creduto…

RZ: E poi effettivamente le dimissioni di Saad Hariri che era primo ministro. Cosa si può dire ora? Ho un articolo davanti a me che parla della rabbia che rimane, parla soprattutto dei giovani, che c’è una parte che rimane mobilitata ma come vedi la situazione?

S: È vero che siamo ancora mobilitati, ma non è più esattamente la stessa cosa. Prima era davvero lavoro di strada, eravamo in modalità manifestazione, blocchi, occupazioni di spazi pubblici… È chiaro che non abbiamo le stesse risorse delle persone al potere. Hanno l’esercito, hanno la polizia, hanno il monopolio della violenza legale e quindi dobbiamo fare qualcos’altro. Ora l’approccio è quello di organizzarsi, di creare cooperative, reti di solidarietà, giardini… Stiamo cercando di collegare tutte le persone che pensano di avere il diritto di vivere in un altro modo. L’ira è ancora lì e il lavoro continua, ma non è più così mediatico come prima, anche se direi che ci saranno ancora alcune sorprese presto.

RZ: Puoi dire qualche parola su te stesso? So che sei nella valle della Bekaa. Quanto tempo ci vuole per andare a Beirut o a Tripoli? Eri molto coinvolto in questo movimento…

S. Sì, in realtà vengo da Tripoli. Sono tornato due o tre giorni prima dello scoppio della rivoluzione. Il 17 ottobre ero ancora nella Bekaa, il 19 ero a Beirut fino al 22 e dal 22 ottobre fino alla fine di gennaio ero a Tripoli. Ho vissuto in prima linea, abbiamo fatto tutto quello che potevamo fare in quel momento, abbiamo allestito tende, creato un’agora, fatto dibattiti ogni giorno, invitato professionisti dell’economia. Tutto quello che potevamo fare per renderlo uno spazio di informazione da una parte e di speranza dall’altra. Che ci sia una prova fisica sul campo per dimostrare alla gente che possiamo fare qualcos’altro se siamo insieme.

La nostra energia era rivolta a questo, al fatto che possiamo vivere in solidarietà, che possiamo vivere senza bisogno di conoscenze, che possiamo vivere insieme e creare e costruire cose insieme. Poi sono tornato nella Bekaa perché bisogna lavorare comunque e poi ci siamo presi il corona virus e hanno cacciato tutte le tende dalle piazze delle città. Nel frattempo, ero in tour con un gruppo di amici. Abbiamo creato un movimento chiamato movimento del basilico, per creare reti di cooperazione agricola per recuperare la solidarietà alimentare. Ci siamo un po’ ispirati al nostro lavoro alla fattoria nel senso che bisogna conservare le sementi contadine, lavorare in bio, diventare completamente indipendenti, produrre i propri bio-pesticidi, liberarci dai monopoli e mettere tutto questo in un quadro giuridico cooperativo. E inoltre a cercare di estenderlo a tutto il territorio libanese. In pratica, questo è quello che faceva in quel periodo.

RZ: Durante i mesi in cui eri nel movimento a Tripoli, la partecipazione popolare era molto ampia, a livello generazionale e professionale?

S: C’erano soprattutto i giovani, molti giovani e anche molte persone di mezza età, persone che hanno famiglie con bambini. Questa ondata di speranza ha fatto sì che un sacco di traumi siano più o meno risolti in una generazione che portava con sé lo strascico della guerra civile. Ma devo dire che è soprattutto la gioventù che ha fatto cambiare le cose, anche i più giovani di me, i liceali, gli studenti che sono all’università in questo momento. È stato tutto quel soffio che ha fatto muovere le cose, senza dimenticare tutti i giovani che si trovavano in una grande precarietà, soprattutto nelle zone iper-povere, a Tripoli o altrove. Questo ha creato un mix estremamente efficace, dove c’erano molte esperienze di vita che venivano da tutto il mondo. Tutti erano d’accordo che bisognava fare qualcos’altro.

RZ: In un altro articolo di Mediapart di luglio, «Una gioventù tra disperazione e rivolta», c’è molta disperazione in molti giovani, ce n’è uno che dice che nessuno vuole rimanere in Libano.

S. Questo è molto vero. Da un lato abbiamo messo molta energia e quando c’è molta speranza e molta delusione dopo, è molto faticoso. La maggior parte delle persone in questo momento pensa che quello che gli interessa è sfamare la sua famiglia, quindi se ne devono andare. È quello che sta succedendo. La stessa dinamica di esportare manodopera qualificata che ora è triplicata perché ci sono pochissime opzioni per vivere decentemente in Libano. Tutti si dicono: «Io me ne vado, non c’è più niente da fare qui, almeno altrove vivrò nella dignità. » Francamente è molto comprensibile, il potere d’acquisto, odio questa parola ma bisogna usarla, perché per ora bisogna ben vivere, è davvero a terra e molte persone hanno perso il lavoro, hanno trovato il loro stipendio diviso per tre. Anche con buoni stipendi la gente non può più comprare cose di base come pannolini per bambini, perché tutto è cinque volte più costoso.

RZ: Per dove partono coloro che lasciano il paese?

S: Normalmente vanno nei paesi del Golf. In questo momento non so se questo sta per essere fatto. Ci sono molte meno opportunità di assunzione. Altrimenti, c’è anche l’Africa occidentale, l’Africa centrale, dove c’è una diaspora libanese. Forse in Europa, ma molto meno, a meno che non ci siano già persone lì che possono preparare le cose. Poi c’è l’Australia da una parte, il Canada dall’altra, ma queste sono le persone che se ne andranno e non torneranno mai più.

RZ: Un’altra domanda per capire meglio: ci sono paesi dove le famiglie che sono in città hanno radici in campagna, a volte hanno anche delle terre che appartengono alle loro famiglie e spesso in situazioni di crisi ci si rivolge a queste terre perché semplicemente permettono di mangiare. Questo fenomeno esiste in Libano?

S: Questo esiste ad un certo livello, la maggior parte degli abitanti delle grandi città, il 60% di questa popolazione, forse anche il 70%, sono persone che vengono dalla campagna e che sono scese in città per cercare di trovare meglio, di avere dei salari. La maggior parte di queste famiglie hanno terreni, ma a causa di tutta la bolla immobiliare, la gente ha pensato di vendere i loro terreni e comprare un appartamento in città. Di conseguenza, molte persone si ritrovano senza terra o si ritrovano a dover utilizzare terreni molto più piccoli del solito, che devono condividere o affittare,… D’altro canto, è il know-how che è in ritardo. Tutta una generazione ha lasciato il suo villaggio e non vuole tornare all’agricoltura perché hanno visto i loro genitori faticare a lungo per non molto. Di colpo, è tutto il modello agricolo che li disgusta.

RZ: Per voi e il movimento del basilico, con le vostre attività con le sementi, con l’orticoltura, è un ostacolo, questa mancanza di considerazione per il lavoro agricolo?

S:È vero che fino a un certo punto «contadino» era un insulto nelle grandi città del Libano, il che è terribile. Cerchiamo di dimostrare con l’esempio che si può vivere decentemente e perfettamente sfruttando un terreno non necessariamente enorme. Siamo su 2 ettari e tutto va bene. Non è sempre facile ma fattibile. Quello che stiamo cercando di dimostrare è che c’è un modo per fare le cose in modo diverso e poterne vivere. Ciò che ha davvero colpito il nostro pubblico è che un sacco di gente ha pensato che potevo avere il mio piccolo orto davanti a casa e almeno risparmiare sui miei acquisti di verdura. Il che non è male, al momento. Senza dimenticare tutto ciò che ne può derivare, cioè che c’è dell’industria alimentare che può funzionare grazie a questo, delle piccole industrie, la trasformazione, le conserve. Senza dimenticare tutto ciò che riguarda i prodotti lattiero-caseari, se si può produrre foraggio per le vacche. Possiamo comunque creare piccoli sistemi relativamente indipendenti che funzionino in cerchio chiuso e che possano comunque produrre.

RZ: Puoi parlare di più di questa attività itinerante che gira in diversi angoli del Libano con questa rete?

S: Nel momento in cui c’erano ancora le piazze della rivoluzione, cioè le piazze pubbliche delle città o dei villaggi dove gli attivisti hanno allestito tende, spazi di incontro, dibattiti, Agora, abbiamo fatto il giro un po’ ovunque in Libano. L’idea era di raccontare le nostre esperienze in fattoria come Juzurna Buzurna e, in sostanza, di mostrare che ci sono alternative agricole che possiamo gestire per avvicinarci sempre più alla sovranità alimentare. È stato molto importante parlare di sovranità e non di sicurezza perché la propaganda dello Stato parla soprattutto di sicurezza alimentare. Danno un po’ di soldi per bilanciare il prezzo del grano, ma non è mai stabile ed è il neoliberismo. Quindi, l’alternativa è produrre il massimo di ciò che possiamo produrre sulla nostra piccola area. È una zona fertile, c’è molta acqua, abbiamo un buon clima per ora, quindi ci sono un sacco di cose da fare. E questo ha risvegliato un sacco di bei ricordi in persone che vengono da ambienti rurali e che sono state costrette ad andare in città. Questo ha scatenato un sacco di entusiasmo, iniziative, giardini condivisi, cooperative, lavoro.

RZ: So che state organizzando molte formazioni: orticoltura, compost, sementi,.. perché il know-how manca.

S: Sì, è un modo per riempire un vuoto perché non abbiamo una politica agricola ponderata o ragionata. Questo permette ai cartelli di tenere tutto, i grandi proprietari, le grandi aziende. Il know-how non esiste più o è completamente corrotto da quella che viene definita l’agricoltura convenzionale che dipende completamente dai fertilizzanti chimici e dalle sementi ibride importate. Ciò fa sì che dipendiamo dall’esterno e soprattutto dal dollaro. Queste formazioni permettono alle persone di cavarsela e di praticare la ricerca e l’esperienza direttamente sul campo. Per esempio, in questo momento abbiamo un piccolo progetto con 20 famiglie nella Bekaa e abbiamo fatto una formazione che permette loro di gestire il loro giardino. Ogni famiglia ha 500 metri quadrati e sono stati in grado di produrre 2 tonnellate di verdure invernali in un mese di stagione. Il che dimostra che non è così complicato.

RZ: Qui siamo sempre stupiti dal vostro progetto, dal fatto che già su due ettari riuscite a produrre grandi quantità di piante che proponete un po’ ovunque in Libano.

S: Produciamo almeno un centinaio di varietà diverse di ortaggi. In estate almeno una ventina di pomodori diversi, diversi tipi di grano, molti cereali, legumi. L’idea è che con poco è comunque fattibile, bisogna solo preparare il terreno, lavorare bene ed essere quanto più in armonia con la natura possibile. È una prova vivente che le cose possono essere fatte in modo pulito, sano, diverso, senza per questo essere incompatibili con il mercato. Il consumatore dovrebbe essere un po’ più responsabile e informato.

RZ: Nel vostro collettivo nella Bekaa ci sono rifugiati libanesi, francesi, ma anche siriani che hanno fatto parte di questo progetto sin dall’inizio. Ci sono oltre un milione di rifugiati siriani in Libano, il che è abbastanza incredibile in una situazione di crisi totale. Cosa possiamo dire attualmente sulla convivenza, sulla situazione di questi profughi in Libano?
S: La situazione dei rifugiati in Libano è molto brutta. L’aiuto internazionale non è quello che era all’inizio della rivoluzione siriana, per non parlare di tutto ciò che è stato sottratto dalla corruzione in Libano. Gli aiuti non sono arrivati ​​nemmeno ai rifugiati. La loro situazione è profondamente precaria e in alcuni casi non è un bel vedere. Posso dire che è una situazione terribile. Cerchiamo di dimostrare che quando lavoriamo insieme in solidarietà, si crea una cooperazione molto più equa. Non si tratta di realizzare un profitto, ma piuttosto di mantenere un modo di fare le cose che consenta a tutti di vivere in modo decente. Essendo un’associazione molto piccola, l’impatto non è enorme, ma siamo stati comunque in grado di lavorare con almeno 400 contadini, libanesi, siriani, palestinesi e dimostrare che un altro modello è possibile. Oltre a una crisi economica e al neoliberismo selvaggio, in Libano abbiamo un grosso problema con il razzismo e questo è qualcosa che deve essere affrontato anche quotidianamente. Francamente, il modo in cui facciamo le cose ci ha aiutato molto in quella direzione.
RZ: Serge, prima di finire, c’è qualcos’altro che vorresti dire?
S: Ho tante cose da dire ma per il momento penso soprattutto che ci serva la solidarietà internazionale, che si sappia, che se ne parli, che le persone altrove, soprattutto le persone che sono in le comunità agricole attiviste, siano consapevoli che qui le cose non stanno andando molto bene. Facciamo quello che possiamo, combattiamo ogni giorno, non ci arrendiamo, saremo lì fino alla fine. Ma sarebbe importante che i popoli altrove sapessero che i loro governi non sono necessariamente i migliori alleati dei popoli libanese, siriano, palestinese e di altri.

RZ: Serge, prima di finire, c’è qualcos’altro che vorresti dire?

S: Ho molte cose da dire, ma per il momento penso soprattutto che abbiamo bisogno di solidarietà internazionale, che si sappia, che se ne parli, che persone altrove, soprattutto le persone che sono in ambiente agricolo militante sono consapevoli che le cose non vanno molto bene qui. Facciamo quello che possiamo, combattiamo tutti i giorni, non ci arrendiamo, saremo lì fino alla fine. Ma sarebbe importante che i popoli altrove sapessero che i loro governi non sono necessariamente i migliori alleati dei popoli libanesi, siriani, palestinesi e altri.

RZ: Il vostro progetto ha un sito web, in parte in francese?

S: Per ora abbiamo una pagina Instagram «Buzurna Juzurna» per seguire le nostre attività, non siamo molto bravi nei social network. Juzurna Buzurna vuol dire «I nostri semi sono le nostre radici».

RZ: So che molte persone sono venute ad aiutarvi.

S: Ora con il corona virus, è difficile per le persone venire, ma abbiamo ancora dei volontari. Tutti sono benvenuti per trascorrere un po’ di tempo in fattoria, vivere con noi, condividere la nostra vita quotidiana. È sempre bello conoscere gente.

Prolungamento: dopo l’esplosione

La doppia esplosione a Beirut è avvenuta appena dieci minuti dopo l’inizio dell’intervista del 4 agosto. Così abbiamo parlato qualche giorno dopo, il 10 agosto, con Serge per avere la sua reazione a questa distruzione di massa a Beirut e le conseguenze politiche.

Già il governo è caduto, il Primo Ministro ha annunciato le dimissioni del governo pochi minuti fa. Questo è fatto; ma non è assolutamente sufficiente. Come descrivere la situazione? Gran parte della città è in rovina. È vero che quando vi ho parlato la settimana scorsa, ho riattaccato, ho visto il notiziario ed è stato terrificante di persona. 2.700 tonnellate di nitrato di ammonio. È una delle più grandi esplosioni nella storia dell’umanità di una bomba non atomica. È davvero enorme e da allora la gente è per strada. Nei primi giorni dopo l’esplosione c’era un grande movimento di solidarietà per trovare i feriti, cercare di salvare quelli che si potevano salvare, sgomberare le strade, aiutare le persone nelle loro disgrazie… Dopo, sabato, c’era una grande manifestazione, una manifestazione. Siamo stati accolti molto gentilmente dalle forze dell’ordine a colpi di granate lacrimogene e proiettili di gomma. Hanno aggiunto un po’ di roba al loro assortimento. Ci sparano con i fucili a piombo. Ci sono un sacco di persone con ferite al viso, conseguenze dirette del fatto che ci sparano a bruciapelo. Non sono più spari di lacrimogeno, sono fucili a piombo direttamente in bocca, tranne per il fatto che siamo estremamente numerosi. È un’intera popolazione, un intero popolo che ricorda il 17 ottobre, ma con molto dolore e rabbia. Per il momento, la strada non si svuota. Beirut è sotto controllo militare. A quanto pare hanno deciso che era una buona idea mettere l’esercito in strada e bloccare tutti gli accessi al centro della città, dove siede il Parlamento. La distruzione totale di un intero quartiere, centinaia di morti, migliaia di feriti, due ospedali devastati e un corpo medico completamente sovraccarico. Lo Stato, il governo non hanno fatto molto. Se guardiamo per strada, sono persone, sono le persone che si sono aiutate a vicenda e i poliziotti erano seduti agli angoli delle strade a fumare sigarette e a guardarci mentre lo facevamo. In breve, per il momento.

RZ: Si parla anche di centinaia di migliaia di abitazioni distrutte…

S: Apparentemente circa trecentomila unità.

RZ: Quindi questo è un enorme cantiere che sta per iniziare…

S: È una carneficina. Sono andato a vedere. Sono appena entrato nella Bekaa. Ho fatto avanti e indietro ogni giorno da giovedì scorso e francamente avevamo visto cose terribili, ma mai una cosa del genere.

RZ. Cosa può succedere adesso? In effetti, il Primo Ministro non aveva molta scelta, poiché diversi ministri si erano già dimessi. Il governo è stato istituito con il sostegno di Hezbollah, Michel Aoun, il Presidente libanese e il Presidente del Parlamento. Hezbollah è un movimento molto armato. Immagino che non sia facile trovare una sorta di rimpiazzo, un’altra forza che riesca a unire tutti?

S: Già, bisogna essere chiari su che cosa è questo governo. È un governo di coalizione mafiosa. Tutti i capi di guerra che sono diventati leader politici dopo la fine della guerra civile hanno interessi e questi interessi sono protetti da questo governo e dai governi che esistevano prima. Non c’è molta differenza. In questo momento, sono Hezbollah e la corrente patriottica libera del presidente e Amal che sono più in prima linea, ma non bisogna dimenticare che sono tutti gli attori della politica libanese dal 1992 che sono colpevoli e che fanno parte di questo sistema e che hanno interessi nella corruzione.

L’alternativa sarebbe una coalizione popolare con alternative che sono emerse un po’ prima e dalla rivoluzione del 17 ottobre. Sarà molto difficile da implementare. Penso che il movimento popolare debba restare in piazza per mettere pressione, ma ad un certo punto si dovrà confrontare con le forze armate, che siano le milizie o le forze armate «ufficiali». Ci si chiede: spareranno al popolo? Lo stanno già facendo, quindi non so cosa potrebbe succedere dopo. Ma la voce della strada ha detto che per ora ci siamo sbarazzati di questo governo, anche se era davvero un burattino. In seguito, bisognerà creare degli indipendenti che si conoscono, di cui si ha fiducia, capaci di svolgere il loro lavoro senza cedere alle pressioni dei diversi attori politici per poter iniziare a costruire un paese. Qui per ora non abbiamo niente qui, non c’è più niente. Quindi, bisogna ricominciare dal basso.

RZ: Il Primo Ministro aveva parlato di elezioni anticipate, ma l’opposizione e i collettivi della contestazione vedono in nuove elezioni una trappola perché occorrerebbe prima una nuova legge elettorale.

S: Esattamente, la legge che abbiamo al momento e le leggi che l’hanno preceduto sono sempre state leggi fatte su misura per mantenere gli attori al loro posto. È una truffa completa, è una farsa. Prima di fare qualsiasi tipo di elezioni, bisogna prima cambiare la legge in modo che sia molto più rappresentativo delle vere richieste del popolo e che si smetta di utilizzare le vecchie divisioni politiche confessionali che esistono da trent’anni.

RZ: Il movimento Cittadini in uno Stato ha detto che ci vorrebbe un governo di transizione con poteri legislativi per diciotto mesi che avrebbe due missioni: affrontare la crisi finanziaria senza precedenti e porre le basi di uno Stato laico.

S: Sì, è sempre stato il loro discorso. Sono attivi da molto tempo, il loro leader è un ex ministro che si è dimesso, Charbel Nahas, è un professore universitario. Non sempre siamo d’accordo con tutto quello che dice, almeno io perché vengo dalla strada, non vengo dai grandi pensatori ma forse è un’alternativa. Le loro alleanze ultimamente lasciano un po’ a desiderare. È un metodo che si potrebbe chiamare old school. Cercano di lavorare ad un livello di influenza alleandosi con personaggi che potrebbero avere un peso regionale. Ma per ora, quando si guarda a ciò che propongono, questa è l’alternativa più decente che possiamo dire. Ma non è l’unica e le iniziative popolari locali possono anche avere conseguenze piuttosto positive se si riesce ad organizzarsi.

RZ: Ci sono anche persone che si preoccupano di due scenari che potrebbero profilarsi: la creazione di un governo militare o l’irruzione di violenze civili spontanee o orchestrate che conducono a una nuova sorta di guerra civile. Sappiamo quando inizia una guerra civile, ma è molto difficile sapere quando finirà. Pensi che sia un rischio reale?

S: Il rischio esiste ancora. Se guardiamo la nostra storia, pensiamo che possa succedere. Beirut è già sotto tutela militare. Bloccano i giornalisti. La libertà di espressione non è più quella di una volta. Forzerebbero dei combattimenti? Potrebbero giocare questa carta, ma allo stesso tempo, quando guardiamo i movimenti popolari, come sono per strada, la solidarietà dopo una catastrofe così grande è ancora molto potente, molto forte e ci lega tutti insieme. C’è una possibilità che accada, ma non è lo scenario più plausibile. Non credo che in questo momento le persone si metteranno a discutere tra di loro quando sappiamo chi è il nemico e sappiamo benissimo chi c’è da trent’anni. Non riusciranno a derubarci o ad ucciderci.

RZ: Sappiamo che c’è stata una conferenza di donatori a livello statale per sostenere il Libano, ma a livello di cittadini, come possono aiutare le persone che vogliono fare qualcosa, che si sentono davvero disgustati da ciò che vedono? C’è un canale o delle proposte di solidarietà dei cittadini internazionali?

S: Innanzitutto bisogna assolutamente non passare attraverso il governo libanese o l’ex governo libanese o qualsiasi altra cosa che partecipi a questa matrice di corruzione mafiosa. Idealmente, per le persone che vorrebbero aiutare, sarebbe molto più semplice entrare in contatto con persone che conoscono, quindi sarebbe un contatto basato sulla fiducia e la conoscenza personale. Dopo di che, credo che possiamo contare sulla Croce Rossa libanese e la Croce Rossa Internazionale. Per il momento, hanno dato prova di molto coraggio e molta efficacia. E poi, ci sono tanti piccoli gruppi. Ci vorrà un po’ per elencarli tutti, ma farò una piccola lista di persone di cui mi fido e sarà molto meglio che passare attraverso i canali ufficiali.

RZ. Serge, grazie mille e buona fortuna a tutti voi.

S: Grazie a te

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