“Il truglio – Infami, delatori e pentiti nel Regno di Napoli”, di Nico Perrone: passano i secoli ma i metodi sono sempre gli stessi

Una libreria – e per libreria non intende quei supermercati tipo Feltrinelli, anche se confesso che mi capita di farci un giro di tanto in tanto, ma con le mani saldamente in tasca, semmai prendendo nota di titoli da chiedere al mio libraio di fiducia – o una bancarella di libri calamitano inevitabilmente il mio sguardo. Così, nei giorni scorsi, mi è capitato di vedere un libricino, nel classico formato Sellerio, ma con la copertina di un colore “beige” ed il particolare di una tela di Bernardo Bellotto esposta alla Kunsthalle di Amburgo: “Il truglio – Infami, delatori e pentiti nel Regno di Napoli”, di Nico Perrone

(Sellerio, 2000). Libro in cui, come si legge nel risvolto di copertina, l’autore “ricostruisce la pratica napoletana del truglio, ovvero del patteggiamento di una pena in cambio della delazione del reo, come antecedente borbonico (diffuso anche in altre realtà spagnole e spagnolesche) della legislazione premiale e del pentitismo.”

Per me, “napoletano dentro” – in realtà sono nato a Cava de’ Tirreni provincia di Salerno, ma da babbo del Vomero – memore  anche delle squallide vicende del pentitismo degli anni ’70/80, la tentazione  era troppo forte, e incoraggiato anche dal prezzo da saldi l’ho acquistato. Leggendolo mi sono sorte spontanee numerose riflessioni sulla “giustizia” dei nostri giorni che mi piacerebbe condividere, ma finirebbero per costituire un articolo nell’articolo così evito.

Eccovene qualche significativo passaggio.

Il truglio

“Il truglio consisteva in un negozio, fra il magistrato e l’accusato, secondo il quale quest’ultimo, talvolta in cambio di una delazione, otteneva una forte riduzione di pena, la sua trasformazione in servizio militare, in servizio sulle navi della Real Marina, l’impunità, oppure aveva salva la vita. In quest’ultimo caso, lo scampato alla condanna veniva indicato dal popolo come sforcato, a memoria della gravità del misfatto di cui si era liberato.

Il truglio veniva inizialmente utilizzato con parsimonia. Il Nicolini, per introdurre l’argomento, ricordava che con questo espediente”cominciò finanche ad abbandonarsi il principio della pubblicità de’ giudizi”. E così proseguiva: “I misfatti minori atteso l’eccessivo numero dei carcerati vennero da tutti i tribunali, particolarmente nei tempi vicereali, non solo giudicati più straordinariamente degli altri, ma difficili in qualunque stato del processo, per via di una transazione tra l’accusatore pubblico ed il reo. Questa forma dicevasi giudizio in concordia, comunemente truglio.

“L’informo”.

La bandiera costituzionale di Napoli

“Un altra procedura, caratteristica della giurisdizione del regno borbonico, fu l’informo, che consisteva in una trattazione in privato, fra l’avvocato e il giudice, dei punti salienti della causa, generalmente civile. Antonio Scaloppa, della bigoncia della Camera dei Deputati, istituita con la Costituzione di Ferdinando II (1848), così descrisse questa pratica: <Il magistrato tornando ordinariamente alle quattro dal tribunale trova già dopo il pranzo la sala ingombra da quegli avvocati che sono i più intimi amici di casa”. … Il deputato Domenico Giannattasio, nel corso del dibattito che seguì, aveva chiarito ancor meglio il concetto, precisando che i magistrati <decidono de’ diritti più preziosi dei cittadini per informi da essi ricevuti nelle loro case>. Il motivo di scandalo era dunque nel carattere domiciliare della discussione, al di fuori sia della sede giudiziaria, sia della trattazione formale del processo. L’informo su questioni criminali fu invece ritenuto, in quella discussione parlamentare, <non giustificato dall’uso>: tuttavia accadeva che esso veniva utilizzato. Ciò avveniva specialmente nei processi politici, nei quali governo e giurisdizione incoraggiavano la delazione, al fine di debellare le congiure: si cercava una transazione al di fuori della pubblicità del processo, che consentisse di sventare glieffetti della cospirazione, di allargare il numero degli accusati e i capi dell’accusa….”

“L’intimo convincimento del giudice”

“Mediante la sua traduzione in legge, durante la rivoluzione francese e nella Repubblica Napoletana, il principio <dell’intimo convincimento del giudice> poteva giustamente definirsi rivoluzionario, tuttavia non era un principio progressista. Anche a chi l’aveva definito <una conquista del pensiero illuministico e della rivoluzione francese>, ha dovuto prendere atto che <l’abbandono delle prove legali in favore del libero convincimento del giudice ha però corrisposto, per il modo in cui è stato concepito e praticato dalla cultura giuridica post-illuminista, ad una delle pagine più amare e intellettualmente deprimenti della storia delle istituzioni penali>…..

Jean-Antoine Houdon, Voltaire, ritratto in un busto poco prima della morte nel 1778 e parte di una serie di busti realizzati da Houdon

 

Voltaire, questo pericolo doveva averlo intravisto, quando scrisse (1766):<Si sarebbe tentativi auspicare che ogni vincolo legale fosse abolito e che non vi fosse altro, al suo posto, che la coscienza e il buon senso dei magistrati. Ma chi ci garantirà che questa coscienza e questo buon senso non si smarriscano?>.

Questo principio era funzionale alla giustizia politica contro i nemici della rivoluzione, non un criterio di di garanzia per l’imputato; un principio d’emergenza da utilizzare quando un pericolo imminente non dia tempo di acquisire le prove: si deve ammettere che d’un fatto di necessità – visto da un’altra prospettiva politica – s’era trattato anche nel processo contro i rei di stato e negli altri processi borbonici che adottarono la procedura speciale ad usum belli et per horas. Allora si volevano reprimere la lesa maestà o delitti definiti di grande pericolosità sociale; ora si trattava di reprimere la lesa Repubblica: un obiettivo destinato a dilatarsi fino a comprendere ogni minaccia all’ordine. Com’è nella logica di uno stato che si pretende etico.”.

 

 

 

 

 

 

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