Modena, 5 gennaio 2018, dentro al cinema Cavour occupato, con il comitato #mobastacemento e Legambiente, si discute dei pericoli nascosti nel cuore stesso della nuova legge urbanistica regionale e degli interessi che l’hanno stimolata e sospinta. Prende la parola Ezio Righi, già estensore di un instant book collettivo dal titolo eloquente, Consumo di luogo. Neoliberismo nel disegno di legge urbanistica dell’Emilia-Romagna (Qua scaricabile direttamente), che dopo aver denunciato i rischi e il carattere cementifero di una legge dettata direttamente dall’Ance (Associazione nazionale costruttori edili) nonché di un conseguente restringimento degli spazi di democrazia e di autodeterminazione, in nome dell’interesse privato e speculativo, ricorda un comparto, quello edilizio, che ha ormai esaurito quasi completamente il proprio compito. In un territorio come quello nel quale siamo immersi, già altamente infrastrutturato, con una quantità di edifici inutilizzati sia di carattere abitativo che commerciale e industriale estremamente elevata, l’ipotesi di continuare a costruire in maniera indiscriminata per il rilancio del settore edilizio, non è soltanto anacronistica ma estremamente dannosa. Una legge ritagliata su misura dei grandi gruppi di costruttori, al servizio di interessi particolari totalmente estranei agli interessi generali della collettività è una prima chiave per avvicinarci ed entrare in contatto ideale con la vicenda storica che ci si appresta a raccontare, perché anche quella è una storia di grandi gruppi, di potentati economici-finanziari che avevano fatto fortuna durante la guerra, principalmente tramite commesse pubbliche e grazie alle giuste conoscenze in  seno al regime fascista. È una storia di rendite parassitarie provenienti da attività e metodi di produzione antiquati e caratterizzati da un saldo sociale altamente negativo. Una storia che interroga direttamente i modi di estrazione del valore e le differenze che intercorrono tra un profitto realizzato attraverso la creazione di ricchezza e uno realizzato tramite la sua distruzione, incoraggiando la cooperazione spontanea o minandola alla radice. Una sorta di accumulazione primitiva che starebbe alle leggi del mercato, così tanto decantate, come una rapina mano armata sta a una compravendita. Ma quella che stiamo per raccontare è anche e soprattutto una storia di lotte, di lavoratori e di repressione. Lotte, lavoratori e repressione che tornano prepotentemente sulla scena principale della cronaca locale con la vicenda della Castelfrigo, punta visibile di un iceberg, quello del distretto carni modenese, che ha molteplici retrogusti amari tutti già rintracciabili in questa vicenda del lontano passato.     pastorale-gazzetta-modena-555

C’è un padrone che licenzia tutti gli operai per poi riassumerne solo quelli a lui graditi, ci sono piazze vietate e città blindate con carabinieri e polizia che si trasformano nel braccio armato del padrone, c’è un sindacato complice, la Cisl, che firma accordi separati e truffaldini, c’è un “paccotto” di Natale che si confeziona con modalità così luride che ci si domanda dove vadano a finire l’auspicata “mediazione sociale”, l’appello “al dialogo e alla ragionevolezza”, la ricerca di “soluzioni condivise” ed infine, c’è un tessuto produttivo nel quale i lavoratori tornano ad essere considerati come oggetti, come semplici ingranaggi da poter sfruttare e gettare via come merci qualsiasi. Vera e propria carne da macello. C’è, insomma, allora come oggi, l’evidenza di un capitalismo nel quale il confine tra economia criminale e ordinaria non è affatto così chiaro e vi è uno Stato, allora come oggi, che non si fa scrupolo nel sostenere le forze più retrograde, parassitarie e velenose della società. Prendiamo da qua:  da più di vent’anni, nel cuore dell’economia modenese, la filiera agroalimentare e il rinomatissimo “distretto carni”, le aziende hanno permesso l’insediamento di cooperative spurie, spesso gestite da malavitosi, grazie alle quali, con un complicato sistema di appalti e subappalti, si può risparmiare il 50% del costo del lavoro e praticare una generalizzata evasione fiscale e contributiva. In questo modo le imprese, grandi marchi o loro importantissimi terzisti, hanno dimostrato in pratica, a mo’ di teorema, che il discrimine tra economia criminale ed economia capitalistica ordinaria, sostanzialmente non esiste. Le mafie non sono un “cancro”, come dice la retorica legalitaria: sono una variante, un’opzione, una potenzialità in più del meccanismo economico.

Umberto Eco, in un suo celebre saggio, parlava di Ur-fascismo, fascismo_eternoun’ombra lunga che si estende tanto davanti al nostro presente quanto si protraeva dalla schiena di questi lavoratori degli anni ’50 che speravano di esserselo lasciato definitivamente alle spalle.


Modena, 9 gennaio 1950. L’eccidio delle Fonderie Riunite.

Siamo nell’Italia del secondo dopoguerra, negli anni immediatamente successivi al conflitto mondiale. Mentre, a Roma, l’Assemblea Costituente sta per approvare la Costituzione della neonata Repubblica Italiana, a Modena, tra l’inverno del ’47 e quello del ’48 viene concordato con la  locale Confindustria l’imponibile di manodopera. Lo scopo è duplice: lenire l’elevato tasso di disoccupazione, perlomeno nel periodo di maggiore necessità, in pieno inverno, e alleviare le sofferenze della popolazione. Si trattava, in sostanza, di una forma assistenziale forzata che stimolava le aziende a impegnarsi maggiormente nell’offrire lavoro ai disoccupati nei quattro mesi invernali. Il lavoro non manca e molte aziende mantengono i lavoratori assunti anche allo scadere del periodo invernale. Fanno eccezione le due fonderie della città:  la Valdevit e le Fonderie Riunite.

La prima era di proprietà di Giovanni Valdevit, un fascista convinto che durante la guerra andava in fabbrica vestito da gerarca, in orbace. “Il suo socio, Fritz Hansenberg, era un nazista. Dalla Germania si era stabilito a Modena e aveva un’officina meccanica che produceva macchine e impianti per le fonderie. Durante l’occupazione giudò i tedeschi a compiere, nel modenese, le più efferate azioni repressiva contro le popolazioni e il movimento partigiano. La loro fortuna di imprenditori era dovuta al regime e ai finanziamenti pubblici; divennero imprenditori grazie alle commesse statali. Fritz dopo la guerra scappò via, ma ritornò dopo le elezioni politiche del 18 aprile del 1948.*” Le Fonderie Riunite, invece, costruite nel 1938, facevano parte del gruppo Orsi, la cui figura di spicco era indubbiamente incarnata da  Adolfo Orsi, numero uno della Confindustria modenese e uno dei più potenti imprenditori nazionali. Come Valdevit era un fervente fascista, amico di Italo Balbo e dei gerarchi ferraresi grazie ai quali aveva accumulato, nel corso del ventennio, un vero e proprio impero economico-finanziario.  Solo a Modena possedeva: la “Maserati Alfieri”, le “Candele accumulatori Maserati” (fu sotto il suo controllo che la produzione di autovetture Maserati si spostò da Bologna a Modena) , le acciaierie e le “Fonderie Riunite”; a Mantova la concessione delle autolinee, a Messina la gestione dei tram e del trasporto pubblico e, per finire, a Tresigallo di Ferrara le “Officine Orsi” per la produzione delle trebbiatrici. Come Valdevit, doveva ringraziare per le sue fortune  principalmente le commesse pubbliche elargite in seguito alla politica di riarmo condotta dal regime fascista.

L’eterno ritorno di quel mix di capitalismo straccione e ur-fascismo che pare seguire come un’ombra ogni vicenda della storia italiana. Ma torniamo un attimo a quel 1948, anno chiave, con le elezioni politiche di aprile vinte dalla Dc che sanciranno una sorta di restaurazione a cui seguirà l’attentato a Togliatti del 14 luglio.

Prendiamo da qua: “Ma cosa stava succedendo a Modena e nel resto del paese in quegli anni? Era in corso dal 1948 una controrivoluzione per azzerare la forza dei lavoratori nelle fabbriche e la tenuta dei sindacati e partiti di sinistra, una forza costruita nella resistenza e nell’immediato dopoguerra. I padroni volevano abbassare il costo del lavoro e aumentare la produttività per orientare la produzione verso l’esportazione. Gli strumenti che usarono: la serrata e i licenziamenti collettivi e selettivi per ridurre il potere contrattuale dei sindacati e delle commissioni interne, l’aumento del ventaglio retributivo, salario sempre più legato alla produzione (cottimo e premio di produzione differenziato), intervento della polizia per sciogliere i picchetti e le manifestazioni; scioglimento dei “Consigli di Gestione”. Nella città di Modena nei due anni 1947-49, ben 485 partigiani furono arrestati e processati per fatti accaduti durante la lotta di liberazione. 3.500 braccianti arrestati e denunciati per occupazione delle terre; 181 volte la polizia intervenne nei conflitti di lavoro.”

È in questo clima che troviamo i prodromi dell’eccidio. Dopo le elezioni politiche del ’48, Adolfo Orsi e Valdevit diedero vita alle prime rappresaglie contro i lavoratori. Orsi serrò le Fonderie Riunite, poi riaperte dopo tre giorni di chiusura a seguito di un compromesso che prevedeva alcune assunzioni dei giovani dell’”imponibile”. Nonostante il lavoro non mancasse di certo, Orsi e Valdevit dapprima licenziarono i lavoratori assunti poi imposero ai rimanenti ore e ore di straordinari. Le esigenze di “straordinario” diventavano così una consuetudine e la tensione aumentò fino a un vero e proprio sciopero a intermittenza. La solidarietà con i lavoratori della Valdevit percorse tutta la provincia e si estese anche molto al di là dell’Emilia. Coinvolgeva tutte le categorie di lavoratori, le organizzazioni democratiche, i partiti di sinistra e le amministrazioni locali, non solo, la vertenza assumeva una connotazione che oltrepassava la dimensione sindacale, era un vero e proprio attacco diretto ai principi democratici e di libertà. Aiutato dalle parrocchie e dal sindacato Cisl (eccolo come ritorna dalla melma del passato) Valdevit organizza così l’assunzione di lavoratori provenienti dalle montagne del Veneto che non avevano mai visto una fonderia in vita loro. La scarsa esperienza diede scarsi risultati. Gli scarti aumentarono e la consegna di pezzi difettosi fece perdere clienti e le fama che l’azienda possedeva per la qualità delle fusioni ne risentì enormemente. L’arroganza unita alla stupidità padronale fece sì che i lavoratori licenziati si costituissero in una Cooperativa Fonditori (ed anche in questo caso abbiamo una cronaca estremamente attuale che riaffiora proprio da quegli anni – vedi foto in basso). “Il Comune di Modena mise loro a disposizione un vecchio capannone, un lavatoio comunale in disuso dove le donne, un tempo, andavano a fare il bucato. L’amministrazione di sinistra e il sindaco galantuomo, Alfeo Corassori, designato dal Comitato di liberazione nazionale, poi confermato plebiscitariamente nelle elezioni amministrative dai cittadini, li favorì nei modi possibili. Gli artigiani modenesi, i piccoli industriali, alcuni clienti della Valdevit diedero loro delle commesse di lavoro.*”  Anche Enzo Ferrari li aiutò sia finanziariamente che attraverso consistenti commesse di lavoro per la Ferrari. FonderieMadonninaLa Cooperativa Fonditori arrivò in poco tempo ad avere 220 lavoratori. Ormai il locale dove si era insediata era insufficiente, così decisero in assemblea di costruire una fabbrica nuova, più adeguata, con un ampio terreno intorno per ogni evenienza di un ulteriore sviluppo. Nel villaggio artigiano di Modena Nord nel quartiere Madonnina, vicino allo stabilimento di Panini, (quello delle figurine) a ridosso della linea ferroviaria Modena-Milano, costruirono con le loro mani la nuova fonderia, godendo delle facilitazioni che l’amministrazione comunale concedeva ai titolari dei nuovi insediamenti, artigiani, piccole industrie o cooperative di produzione e lavoro.* 

Prendiamo da quai proprietari della Fonderia Valdevit decisero di imporre la trasformazione del cottimo collettivo in cottimo individuale. Le maestranze reagirono con la strategia della non collaborazione e con scioperi intermittenti, ma al ritorno dalle festività natalizie del 1948 si trovarono davanti la serrata e il licenziamento collettivo di tutti i 228 dipendenti. La direzione assunse al loro posto 140 crumiri provenienti dal Veneto e dalla montagna, reclutati dai preti. Nel febbraio successivo i dipendenti della imolese Cogne decisero di fare come la Galilei di Firenze: entrambe le fabbriche ricevevano pezzi dalla Valdevit, ma i loro operai si rifiutavano di lavorarli in appoggio ai licenziati modenesi. Per l’occasione l’amministratore delegato del Gruppo Cogne (il senatore DC Teresio Guglielmone) ritenne di inviare addirittura un colonnello per la gestione delle “relazioni sindacali” con i riottosi operai imolesi. Ma ci voleva ben altro per spaventarli! I lavoratori della Cogne si erano già distinti nella resistenza al nazifascismo praticando il sabotaggio della produzione bellica, scendendo in sciopero, rischiando grosso sotto l’occupazione tedesca. La fabbrica, distrutta dalle bombe, se l’erano ricostruita con le loro mani. Gente tosta e determinata. Per questo, nonostante le provocazioni del colonnello Borla, il Comitato di agitazione riuscì ugualmente ad imporre alla Cogne di ritirare dalla Valdevit i modelli per le fusioni dei suoi pezzi, e di ricollocarli in altre fonderie modenesi disposte ad assumere il personale licenziato. Fu una vittoria di tutto rispetto, tenendo conto che sia gli operai che la Direzione generale della Cogne avevano ben chiara la natura politica dello scontro in corso a Modena, come parte di un attacco generale agli spazi conquistati dai lavoratori durante la Liberazione. Proprio a Modena, da lì a poco lo scontro sarebbe stato portato alle estreme conseguenze, con i licenziamenti alle Fonderie Riunite e l’eccidio del 9 gennaio del 1950.

Autoblindo_T17_in_piazza_Grande_a_Modena

Autoblindo in Piazza Grande

Arriviamo così al 9 gennaio del ’49, un anno esatto prima del massacro. “Il 9 gennaio 1949 in piazza Roma, davanti al Palazzo Ducale dove ha sede l’Accademia militare, Fernando Santi, segretario nazionale della Cgil, durante una manifestazione sindacale in solidarietà con i lavoratori licenziati, parlò contro la serrata alla fonderia Valdevit e alla carrozzeria Padana. Era una domenica mattina non fredda, con il sole. La gente, vestita a festa, in gran numero aveva partecipato al comizio, poi tutti si erano incamminati per le diverse strade del centro, non formando un corteo, ma mescolandosi con le persone che venivano dalla messa nel Duomo per la passeggiata domenicale. A un tratto la polizia si scatenò sulle camionette a tutta velocità per la via Emilia, in piazza Mazzini, nella piazzetta delle Ova, davanti al Duomo, sotto i portici del Collegio, e prese a bastonare tutti, uomini e donne, fedeli e inermi cittadini, si sparò ad altezza di uomini; i “proiettili vaganti”, come si scrisse su un giornale, per fortuna non colpirono nessuno. Fu un’aggressione selvaggia senza motivo alcuno. Il comizio si era svolto senza incidenti, non vi era stato corteo, né bandiere, cartelli, niente, la gente tranquilla andava, nell’ora del pranzo, verso casa. La psicosi aggressiva, la caccia ai lavoratori, ormai era un fatto naturale, non si tolleravano gli “assembramenti” scambiando come tali l’uscita dei fedeli dalla messa, o la passeggiata domenicale “nella vasca” sotto il portico del Collegio con gli amici e le amiche, pavoneggiandosi nei vestiti nuovi della festa.*”

È “l’ordine pubblico” scelbiano che si esercita in quegli anni, con un modello di polizia inteso come un vero e proprio esercito e armato di conseguenza. Ad esempio, a Savignano sul Panaro, il 6 aprile del ’49, una manifestazione di 1500 persone con cartelli inneggianti alla pace protestava contro l’adesione dell’Italia alla Nato suggellata appena due giorni prima. Alla manifestazione era presente anche il sindaco del paese, nonostante questo, per disperdere i manifestanti, i Carabinieri non esitarono a lanciare una bomba a mano e a sparare in aria con i mitra. Equipaggiamenti richiamavano  molto di più scenari bellici che non di ordine pubblico. Mitra MAB per la Polizia e moschetto Carcano 91/38 per i Carabinieri, ma non solo, a Modena nel giorno dell’eccidio l’”ordine pubblico” scelbiano si presentò direttamente con le autoblindo Staghound T17 e relativo armamento pesante.

scelba

La polizia italiana del dopoguerra venne ricostruita dal ministro dell’Interno socialista Giuseppe Romita, il quale non esitò a reinserire subito nei ranghi la PAI (Polizia dell’Africa italiana) che godeva di una pessima reputazione. Fu lui e non Scelba a istituire i reparti “Celere” impiegati sovente nella repressione che da quegli anni giunge fino ad oggi. “A molti agenti di polizia e a molti carabinieri in servizio in quegli anni sarà capitato di sentirsi apostrofare come fascistadelinquente o molto spesso criminale. Se chiamare un agente fascista è un insulto politico e indica effettivamente l’avversario del comunista e il nemico del lavoratore, criminale e delinquente sono termini che hanno un altro valore, vogliono identificare uomini che commettono un’infrazione, un atteggiamento illegale, persone che non rispettano la legge. L’utilizzo di questa terminologia non è casuale, indica la presenza di una diversa, forse opposta, interpretazione della legge dello Stato. L’ideale dello Stato Repubblicano che con la Costituzione riconosce il lavoratore come soggetto politico, l’ideale della democrazia in fabbrica, della contrattazione, per lunghi anni in Italia sembra essere rimasto privo di una qualsiasi traduzione pratica. Nel secondo dopoguerra lavoratori e forze dell’ordine convivono in uno stesso spazio ma sembrano fare riferimento a regole diverse, quasi a Stati diversi. La tesi che supporto è che per alcuni dirigenti delle questure e delle prefetture, l’imprenditore era un uomo d’ordine, rispettabile anche se commetteva un reato e non fosse disposto a garantire il rispetto della costituzione in fabbrica. Al contrario l’operaio, anche se viveva nel rispetto dei valori costituzionali e ne chiedeva l’applicazione, rappresentava comunque un pericolo per l’ordine pubblico o addirittura un nemico dello Stato. Questo aspetto è talmente evidente che possiamo ritrovare tutta una serie di atteggiamenti e di costumi che sembrano legittimare questa prospettiva, anche da parte dei dirigenti e dei padroni delle fabbriche. Era quasi una consuetudine, molto significativa, che in caso di sciopero il dirigente aziendale potesse rivolgersi direttamente al Prefetto o al Questore per fare egli stesso il punto sull’ordine pubblico e programmarne addirittura la gestione.**” Calendari e gadget dell’azienda AlcarUno, visti da alcuni compagni, su certe scrivanie della Questura di Modena ci fanno immaginare che non sia cambiato poi così tanto da allora. Fascismo eterno.

modena15Ma torniamo agli anni ’50. “A Modena dal 1947 al 1949, 485 partigiani furono arrestati e processati per fatti accaduti durante la lotta di liberazione, 3.500 braccianti furono arrestati, processati e assolti per l’occupazione delle terre, mediante gli scioperi a rovescio, le loro biciclette distrutte. Nel solo anno 1949 a Modena la polizia intervenne 181 volte nei conflitti di lavoro contro i lavoratori utilizzando il codice fascista Rocco contro la Costituzione repubblicana, definita dal ministro dell’Interno, Scelba, “una trappola”. In questi due anni, quarantaquattro lavoratori furono assassinati in Italia dalla polizia di Scelba perché chiedevano di lavorare. Alla fine del 1949 a Modena e provincia tredici erano le fabbriche serrate e duemila lavoratori erano stati licenziati in spregio alla costituzione e al diritto sacrosanto al lavoro. Tutte le piazze erano vietate dalla prefettura e presidiate dalla polizia, alle manifestazioni, come pure la diffusione di volantini e l’affissione dei giornali sindacali e dei partiti di sinistra.*

Ci avviciniamo così al giorno al giorno della strage. Come regalo di Natale, nel dicembre del ’49, il “magnanimo” Adolfo Orsi fece trovare ai propri dipendenti, sotto l’albero, la seconda serrata delle Fonderie Riunite nonché il licenziamento di tutti i 560 lavoratori occupati. Appoggiato da un grande dispiegamento di forze dell’ordine e sostenuto dalla Confindustria modenese Orsi attuò così la seconda serrata della Fonderia in altrettanti anni. Anche il sindaco Corassori incontrò Orsi ma non si giunse ad alcun accordo. Nel pieno delle festività natalizie, il piano dell’industriale fascista venne precisato in tutta la sua interezza con manifesti fatti affliggere in vari punti della città. La riapertura delle Fonderie era prevista per il 9 gennaio,  ma solo 250 dipendenti su 560 sarebbero stati riassunti a sua piena discrezione. L’idea di Orsi era la solita, assumere nuovi lavoratori non sindacalizzati né politicizzati; non solo, le “rivendicazioni” del padrone riguardavano anche il premio di produzione, le bacheche sindacali,  l’abolizione del Consiglio di gestione e della mensa dei lavoratori. A una serrata illegale e a simili richieste si rispose proclamando uno sciopero generale di tutte le categorie e di tutta la provincia.

“Subito dopo il capodanno del 1950 nella sede della Confindustria, vi fu una riunione degli industriali della provincia di Modena dove venne deciso l’uso della polizia a sostegno di Orsi per reprimere con la violenza ogni manifestazione sindacale e di massa. Nel frattempo il prefetto e il questore rifiutarono alla Camera del lavoro qualsiasi piazza per svolgere, il lunedì 9 gennaio, la manifestazione sindacale provinciale prevista e decisa nel Consiglio generale dei sindacati e delle leghe.*” Che le cose si potessero mettere male, a Modena, la mattina del 9 gennaio era abbastanza scontato. Già dal giorno prima vengono spediti in città i reparti di Cesena (XX° Mobile), di Bologna (VI° Mobile), di Piacenza (III° Mobile), di Ferrara (distaccamento VI° Mobile), circa 1.500 effettivi, tra polizia e carabinieri, armati ti tutto punto, con camion, jeep e autoblindo T17 con armamento pesante.

images08ORU7LSLunedì 9 gennaio 1950 è fredda anche se c’è un bel sole. Adolfo Orsi non è in città mentre “i lavoratori affluiscono a Modena dalla provincia, con ogni mezzo di trasporto, recandosi nel quartiere Crocetta Santa Caterina, nei pressi delle fonderie Riunite. A piedi, quelli delle fabbriche della zona industriale di Modena Nord, aggirano i blocchi della polizia passando tra i campi per stradine o sentieri. Si calcola fossero decine di migliaia. La città tutta si era fermata, i negozi erano chiusi e la gente per solidarietà o semplicemente per curiosità, non avendo altro posto dove andare, si recava alla Crocetta.*” Intanto, le fonderie che, in teoria, quel giorno avrebbero dovuto riaprire sono occupate da una cinquantina di uomini armati. Dai tetti della fabbrica spuntano le mitragliatrici dei carabinieri. Tira una brutta aria. I militari bevevano abbondanti alcolici, propinati dai loro ufficiali. Poco più tardi, una delegazione di parlamentari, deputati e senatori si recherà ancora una volta dal Prefetto, Giovanni Battista Laura e dal Questore Arturo Musco. Ma è già troppo tardi.

momentoPoco dopo le dieci un gruppo di lavoratori che si trovava all’esterno della fabbrica vicino al muro di cinta, tenta di instaurare un dialogo con i carabinieri. Una pistola spara a freddo e Angelo Appiani [30 anni, partigiano, metallurgico] cade a terra. È il primo. Subito dopo spara anche la mitragliatrice sul tetto della fabbrica, gli agenti mirano alla folla che si trova su via Ciro Menotti, oltre il passaggio a livello. Arturo Chiappelli  [43 anni, partigiano, spazzino] viene colpito a morte. E due. Lo stesso capita ad Arturo Malagoli  [21 anni bracciante]. E tre. Molti vengono feriti gravemente, altri in modo più leggero. È il fuggi, fuggi generale ma mentre si scappa si assistono i feriti, trasportandoli al riparo dove capita, rischiando le rappresaglie della polizia ma salvando molte vite. Mentre alla Crocetta si spara, la delegazione di parlamentari, deputati e senatori ascolta le parole del Prefetto Giovanni Battista Laura: «abbiamo tanta forza da sterminarvi tutti». Fascismo eterno. “Il Questore (Arturo Musco) a sua volta aggiunse: «Sarà un macello, faremo un macello, faremo piazza pulita». […] Come rilevo da un libretto di appunti che ho con meco, alle ore 11.45, il Questore disse: «se entro 10 min non sarà sgomberata (la zona) sarà una strage».**” RobertoRovatti Più o meno negli stessi istanti, “Roberto Rovatti [36 anni, partigiano, metallurgico] si trovava in fondo a via Santa Caterina vicino alla chiesa, cioè dal lato opposto e distante mezzo chilometro da dove vennero uccisi i suoi compagni. Portava una sciarpa rossa al collo com’era sua abitudine. Circa mezz’ora dopo la prima sparatoria, venne circondato da un gruppo di carabinieri, scaraventato violentemente dentro al fosso e massacrato, linciato a forza di tremende botte con i calci dei fucili. Non aveva opposto alcuna resistenza.” E quattro. “Ennio Garagnani  [21 anni, carrettiere] venne assassinato in via Ciro Menotti dal fuoco di un’autoblindo che sparava all’impazzata tra la folla ferendo molti gravemente.” E cinque.  “Con il passare del tempo la tragedia assumeva aspetti di bestialità espressa, senza limiti. Di fronte all’acquedotto i poliziotti gettarono alcuni fucili ai piedi dei lavoratori i quali non li raccolsero, indietreggiando velocemente. Sapevano che se li avessero raccolti non avrebbero avuto scampo, sarebbero stati fulminati lì sul posto. Si trattava di una provocazione progettata, calcolata, lucidamente eseguita.*” In tarda mattinata, dopo cinque morti, il Prefetto Giovanni Battista Laura, autorizza l’utilizzo di piazza Roma per lo svolgimento della manifestazione sindacale. “Era da poco trascorso mezzogiorno, la macchina della Cgil con l’altoparlante aveva già annunciato la manifestazione in piazza Roma invitando i lavoratori a partecipare. La gente aveva cominciato ad affluire. In fondo  a via Ciro Menotti, all’incrocio con via Paolo Ferrari e Montegrappa, uscendo da una parte dove si era riparato, Renzo Bersani  [21 anni metallurgico] attraversava la strada a piedi senza correre, un graduato s’inginocchiò sulla strada, era lontano da lui circa 150 metri, prese la mira e gli sparò, fulminandolo, di fronte a migliaia di testimoni.*” E sei.

fabbrichefonderiecaduti1950

I primi telegrammi, lanciati dal prefetto Laura, parlano di scontri e di un attacco preordinato da parte degli operai. La polizia cerca ovunque qualche oggetto come “corpo del reato” per dimostrare la resistenza violenta da parte dei lavoratori ma non trova nulla. In piazza una folla di lavoratori arrabbiati e pieni di rancore ascolta le parole di Attilio Trebbi della Fiom che parla dal palco. Oltre ai sei morti, vengono arrestati 34 lavoratori. Quelli feriti gravemente e portati in ospedale vengono arrestati e denunciati per resistenza a pubblico ufficiale, per partecipazione a manifestazione sediziosa non autorizzata e per attentato alle libere istituzioni per sovvertire l’ordine pubblico e abbattere lo Stato democratico. Sul mensile dell Fonderie Riunite, Il Crogiuolo, nato appena due mesi prima, nell’ottobre del’49 proprio per denunciare il clima di repressione padronale instaurato da Orsi, “i morti di Modena vennero subito messi in relazione con quelli di Melissa, Torremaggiore e Montescaglioso. Uno spazio centrale venne lasciato per il saluto giunto dal carcere da parte del segretario della Commissione interna delle Fonderie Riunite, Santandrea Giordano, arrestato il giorno stesso in cui avvennero le uccisioni.**”

11gennaio50L’11 gennaio un lunghissimo corteo funebre attraversa la via Emilia. La folla che ascolterà le parole di Corassori, di di Vittorio (segretario della Cgil) e di Togliatti, che adotterà la figlia di una delle vittime è letteralmente immensa. Tra la folla si aggira anche un Gianni Rodari inviato dell’Unità. Due giorni dopo, il 13 gennaio 1950, nel tardo pomeriggio, in una stanzetta della  prefettura, viene firmato l’accordo per la riapertura delle Fonderie Riunite senza nessun licenziamento e nessun’altra condizione, se non quella della gradualità nella riassunzione.

La banalità del male.

I trentaquattro lavoratori arrestati passarono in carcere oltre due anni prima di venire assolti tutti con formula piena dal tribunale di Modena. Al contrario del sig. Prefetto Giovanni Battista Laura e del sig. Questore Arturo Musco che, denunciati all’autorità giudiziaria come i responsabili dell’eccidio dei sei lavoratori, già nel marzo del ’50 erano scagionati con un bel “non luogo a procedere”. Dopotutto Giovanni Battista Laura era pur sempre uno che aveva aderito al fascismo spontaneamente già nel ’25, Prefetto di Chieti nel ’41, di Cremona nel ’42 fino a diventare vicegovernatore di Roma prima della fine della guerra. Uno “rispettabile”. Certo; che poi tutti i testimoni chiamati dagli avvocati a deporre contro sig. Prefetto e sig. Questore fossero stati arrestati assieme a molti dei feriti è un dettaglio assolutamente irrilevante**. Già nel ’54 le vittime della strage del 9 gennaio vennero lasciate senza colpevoli. Fascismo eterno. Nonostante le “coccole” e la riconoscenza del Ministero degli Interni molti agenti in servizio quel giorno chiesero e ottennero il trasferimento. Lo Stato riconobbe un risarcimento alle famiglie delle vittime solo quindici anni dopo. Un milione di lire. Fascismo eterno.

I fatti di Modena segnarono una cesura. Sia nella stampa che nell’opinione pubblica cominciavano a serpeggiare diffuse critiche circa il continuo e indiscriminato utilizzo di armi da fuoco contro operai e contadini inermi. A Modena, al contrario, produssero difficoltà e lacerazioni all’interno del Pci che portarono fino al commissariamento di quest’ultimo sul finire del ’52 con l’arrivo Giuseppe D’Alema (sì esattamente, proprio il padre di Massimo D’Alema) come commissario. Comincia così la normalizzazione cittadina di un partito “ancora attratto dalle tentazioni rivoluzionarie, che evidenzia l’impreparazione di un gruppo dirigente composto prevalentemente dalla “leva partigiana” e con scarsa esperienza politica. […] L’arrivo di D’Alema è uno scossone […] stigmatizza il “carattere plebeo” di molti dirigenti e quadri, incapaci di vedere la realtà al di fuori dei loro luoghi sociali di riferimento e di provenienza, lo scarso livello politico e l’insufficiente capacità di elaborazione teorica e, infine, un serio isolamento sociale, particolarmente visibile nella scarsa adesione al partito dei ceti medi urbani.***”


Epilogo

Sulla strage delle Fonderie Riunite cala così, con gli anni, un eloquente e interessato silenzio, fatto di gonfaloni, di divise e commemorazioni istituzionali. I fantasmi del passato vengono sepolti come le sei vittime morte per mano della polizia. La memoria è soppressa così come il ricordo del conflitto sociale che ha dato vita e forma al territorio che ci circonda (come abbiamo avuto modo di vedere con le Fonderie della Madonnina). Mappare è ricordare e ricordare è mappare perché i luoghi e i territori parlano se facciamo le domande giuste. Dare per scontato il paesaggio significa ignorarne i conflitti che l’hanno generato, significa muoversi in uno spazio piatto e neutro, senza radici e senza memoria, senza le quali è difficile anche solo immaginare nuove forme di territorio lasciando così le porte aperte alla speculazione, alle nuove leggi urbanistiche e al conseguente e definitivo consumo dei luoghi che porta direttamente alla loro distruzione.

26172423_978264605657940_8676565908174577761_o

Proprio per questo motivo, occorre dissotterrare la memoria, ripercorrerne le orme e mappare nuovamente un territorio e una città che è anche e soprattutto nostra, per ridonarle senso, significati, riscatto. Le scenette da propaganda elettorale non le vogliamo sentire quest’anno. Le retoriche degli alzabandiera e delle commemorazioni istituzionali silenti coprono la rabbia, lo sporco, le ragioni confondendo il tutto in una poltiglia indistinta dove vittime e carnefici si equivalgono.  (Da Fonderie: sulle orme della memoria per afforntare il presente.)

*Eliseo Ferrari, A sangue freddo. Modena 9 gennaio 1950. Cronaca di un eccidio, Edizioni LibErtà, 2004.
**Francesco Tinelli, Era il vento non era la folla. Eccidio di Modena, 9 gennaio 1950, Bébert Edizioni, 2014.
***Lorenzo Bertuccelli, All’alba della Repubblica. Modena, 9 gennaio 1950. L’eccidio delle fonderie riunite, Unicopli, 2012.