Sportwashing – Aumentano gli Stati sul banco degli accusati, dalla Cina al Qatar, ma l’Italia fa la sua parte grazie anche alla Gazzetta dello Sport

Articolo di Paolo Condò, ex giornalista della Gazzetta dello sport” su Repubblica

 

Paolo Condò  è un giornalista con cui ho condiviso l’esperienza alla “rosea” – lui al calcio io ai cavalli – e che ho sempre stimato molto, professionalmente e umanamente.

Da profondo conoscitore del mondo del calcio, qual’è, ha scritto lo scorso ottobre un articolo per Repubblica, vedi foto, a proposito della cessione di una squadra inglese, il Newcastle: “Naturalmente è facile criticare da lontano la Premier League per l’ipocrisia che ha governato prima il rifiuto e poi l’accoglimento del fondo sovrano saudita nel ristretto club delle mega proprietà che si danno battaglia sui campi inglesi. Appena l’Arabia Saudita ha revocato l’embargo a beIN Sports, la tv sportiva del Qatar, garantendo l’oscuramento dei molti siti pirata all’opera sul suo territorio, l’autorizzazione ad acquistare l’80 per cento del Newcastle è stata concessa. Amnesty International e altre associazioni umanitarie hanno intensificato la denuncia dell’operazione di sport washing (l’investimento nello sport come arma di distrazione di massa dalla violazione dei diritti umani), ma intanto migliaia di tifosi del Newcastle si riversavano fuori St. James’ Park, il loro stadio, per festeggiare l’arrivo di una proprietà persino più ricca del Psg (l’emiro del Qatar) e del Manchester City (lo sceicco di Abu Dhabi).

Tito Flavio Vespasiano

 

“Pecunia non olet” è una frase ben nota a criminali, corrotti e corruttori etc., e non per averla studiata a scuola. Dice in proposito Wikipedia: “La tradizione, accolta da Svetonio in Vite dei Cesari e ripresa poi da Cassio Dione in Storia romana vuole questa frase attribuita a Vespasiano , a cui il figlio Tito aveva rimproverato di avere messo una tassa, la centesima venalium, sull’urina raccolta nelle latrine gestite dai privati, popolarmente denominate da allora “vespasiani”. Dall’urina veniva ricavata l’ammoniaca necessaria alla concia delle pelli e da questa tassazione provenivano cospicue entrate per l’erario.”. Si potrete quindi dire che lo sport washing è la versione aggiornata dell’espressione latina.

“Che cos’è lo sportwashing? Sfruttare lo sport per rendere moderna la propria immagine e far distogliere lo sguardo dalla pessima situazione dei diritti umani”. La definizione è di Amnesty International – e mi sembra sostanzialmente corretta – che poi spiega “L’esordio di questa strategia può essere collocato a cavallo tra lo scorso e l’attuale decennio: sulle maglie di importanti squadre di calcio sono comparsi sponsor, magnati arabi hanno acquisito quote azionarie, diversi stadi hanno assunto denominazioni di aziende dell’area così come team di sport di gruppo come il ciclismo. In una seconda fase, l’attenzione è stata posta sull’accreditamento sulla scena globale dei  come soggetti in grado di poter ospitare e organizzare eventi sportivi internazionali. Il massimo esempio è quello del Qatar, che si è visto assegnare i mondiali di calcio del 2022. Il Bahrein, gli Emirati arabi uniti e lo stesso Qatar sono tappe ormai fisse dei calendari delle gare di automobilismo e motociclismo….”.

Da sqpiu.it, in un articolo di Alberto Cartesi del 13 aprile 2015: “Nulla stanno facendo le istituzioni del Qatar per affrontare questo problema- dicono all’Ituc. La Fifa deve mandare un messaggio forte e chiaro a Doha. Ovvero che non consentirà che si giochi una Coppa del Mondo organizzata grazie a un sistema di schiavitù moderna per migliaia di lavoratori migranti». Considerando che la forza lavoro straniera nell’emirato ora ammonta a 1 milione e duecentomila e dovrebbe aumentare di un altro milione di qui al 2022, l’allarme è serio e motivato. E assume dei contorni grotteschi ( e vergognosi), sapendo che il Qatar è il paese con il reddito pro capite più alto del mondo. (Fonte: Corriere della Sera)”

 

Di sport washing si parla molto negli ultimi anni rispetto soprattutto all’Arabia Saudita, e giustamente. Ma a mio avviso si può partire molto indietro nel tempo.

Jesse Owens, vincitore  ai Giochi di  Berlino 1936

Ad esempio, “Il fatto quotidiano” ha pubblicato nell’agosto dello scorso anno un articolo, a proposito delle Olimpiadi, di cui riporto un passaggio significativo: ” … Proprio come nel 1936, quando i Cinque Cerchi arrivano a Berlino. La Germania ha ottenuto l’assegnazione delle Olimpiadi cinque anni prima, quando Hitler ancora non era salito al potere. Ma nel 1933 Stati Uniti e democrazie occidentali suggeriscono al Cio che forse sarebbe meglio cambiare sede per non trasformare i Giochi in uno spot per il nazismo. Il comitato ascolta, ringrazia e poi risponde che ormai si deve andare avanti così, che cambiare sede sarebbe stato contrario allo spirito antidiscriminatorio delle Olimpiadi. Negli Stati Uniti ci si divide. Avery Brundage, presidente del Comitato Olimpico a stelle e strisce, dice chiaramente che non bisogna immischiarsi nei problemi fra i nazisti e gli ebrei. Eppure il fronte favorevole al boicottaggio cresce velocemente. Nel marzo del 1934 al Madison Square Garden di New York va in scena un raduno antinazista. Il numero di partecipanti è impressionante e anche il Times sostiene l’iniziativa. Il fronte del no ai Giochi è ormai una realtà che non può più essere ignorata. Così Brundage cala l’asso nella manica: andrà personalmente in Germania per vedere con i suoi occhi se davvero gli ebrei sono vessati. Finalmente gli Stati Uniti sapranno la verità. Ma durante il suo viaggio a Berlino Brundage sceglie come traduttore un suo amico con simpatie naziste e ascolta solo persone selezionate (e preparate) dal regime. Le polemiche continuano, ma ormai non servono più niente. Avery Brundage ha vinto: gli Stati Uniti vanno a Berlino e sfilano con il resto del mondo sotto quel trionfo di svastiche voluto da Goebbels. …”

Protesta al consolato saudita di Instanbul per denunciare le responsabilità del principe Mohammad Bin Salman nell’omicidio di Khashoggi (ansa)

 

Oltre a voler creare un’immagine accettabile e moderna di un paese  in cui normalmente si ignorano i diritti umani e si eliminano i giornalisti scomodi al potere, grazie allo sport washing l’Arabia Saudita spera di ottenere un beneficio non solo a livello d’immagine ma soprattutto a livello economico. Si tratta in effetti di una vera e propria strategia economica che trova posto all’interno del piano chiamato Saudi Vision 2030 il quale prevede, tra i tanti obiettivi, di attirare una grossa fetta di turisti provenienti dall’Europa, paese in cui si sta svolgendo la più recente operazione di sport washing.

E veniamo alla Gazzetta dello sport. Indubbiamente ha preso posizione su alcune vicende, come questa: “Ultrà del Beitar Gerusalemme picchiano una disabile: “Da noi non c’è posto per donne e invalidi”. E nell’articolo si legge che “Hanno girato persino un documentario trasmesso da Netflix – Forever Pure (Per sempre puri) – sugli ultrà del Beitar Gerusalemme. Purtroppo nulla di cui vantarsi.”.

La Gazzetta dello sport è abile anche nello “auto sportwashing”, come si legge ad esempio sul suo sito: “Il Giro d’Italia è l’unico evento ciclistico a tappe di rilevanza mondiale ad avere tra le priorità una elevata attenzione all’ambiente. Al punto da rinnovare, per il sesto anno consecutivo, il progetto di sostenibilità Ride Green basato sull’attività di raccolta differenziata attraverso un sistema di tracciabilità e monitoraggio dei rifiuti, che promuove la salvaguardia delle aree attraversate dalla Corsa Rosa…..”.

Ottime cose. Ma quando ci sono di mezzo i soldi, quelli veri, le cose cambiano. Tre anni fa la Gazzetta dello sport, organizzatrice del Giro d’Italia, decideva di far partire la corsa a tappe da Gerusalemme, sostenendo così di fatto il governo nazi-sionista di Israele che massacra da decenni il Popolo Palestinese. E, come rivela il concorrente  Corriere dello Sport :“«La dicitura Gerusalemme Ovest è stata subito rimossa da ogni materiale legato al Giro d’Italia 2018: tale dicitura era priva di alcuna valenza politica»: lo annuncia all’Ansa RCS Sport, dopo le proteste del governo israeliano per come era stata definita dagli organizzatori Gerusalemme, sede designata per la partenza dell’edizione n.101 della corsa, il prossimo anno. «Gerusalemme è la capitale di Israele, non esiste est e ovest», avevano detto i ministri israeliani dello sport e del turismo, minacciando il ritiro dei finanziamenti.”.

Sebastien Vettel con la maglietta pro LGBT e anti Orban durante l’inno ungherese

Il prossimo anno la Gazzetta parteciperà allo “sportwashing” di un altro Stato la cui barbarie non eguaglia ancora quella nazi-sionista ma non per questo va sottovalutata: l’Ungheria di Viktor Orban, abile nel farsi affidare pieni poteri sfruttando la pandemia e persecutore dichiarato della comunità LGBT. Ovviamente, secondo la ministra ungherese della Giustizia Judit Varga l’Ungheria – come riportava Rainews” il 3 agosto scorso – “è stata attaccata su una  scala senza precedenti, solo perché la protezione dei bambini e delle  famiglie resta la nostra priorità: non vogliamo lasciare che la lobby Lgbtq entri nelle nostre scuole e nei nostri asili”. Interessante in proposito l’articolo   di Massimo Costa, per  Il Messaggero, dove si parla anche della scelta di Vettel che “ha poi fatto di più, arrivando sullo schieramento di partenza, in occasione dell’inno nazionale, con una T-shirt arcobaleno con la scritta Same Love” e di Lance Stroll, Valtteri Bottas e Carlos Sainz che invece non hanno tolto le magliette We Race As One.

Ma la crociata anti omosessuali di Orban, serviva anche a nascondere un progetto che vede lo stato magiaro partner, ma forse è più corretto dire complice, del colosso Cina, altro paese che di democrazia e libertà individuale ha un concetto molto particolare. A rivelarne i particolari è l’inviata di Repubblica Tonia Mastrobuoni nell’articolo “Orbán “il cinese”, così l’Ungheria apre ai fondi di Pechino“.

Sullo sport washing si potrebbe scrivere all’infinito, ma vediamo alcuni altri casi esemplari, in negativo ovviamente.

Israele, di cui già si è detto sopra, guarda caso è presente anche nelle manifestazioni ciclistiche più importanti, Giro d’Italia compreso, con Israel Start Up Nation : 4 partecipazioni (2018, 2019, 2020, 2021 e due vittorie di tappa: 2020: 1 (Alex Dowsett), 2021: 1 (Daniel Martin).

Lewis Hamilton

La Turchia non è da meno in quanto a sportwashing. Su queste colonne ne abbiamo già scritto, qui, riportando, tra l’altro, la dichiarazione di un grande pilota com Lewis Hamilton: “Dopo aver vinto il suo settimo titolo, aggiudicandosi il Gran Premio di Turchia, Lewis Hamilton dichiarò chiaramente che la F1 doveva affrontare pubblicamente la questione della difesa dei diritti umani: “Ci rendiamo conto che dobbiamo affrontare e non ignorare le questioni relative ai diritti umani nei paesi in cui andiamo, non solo tra 20 e 30 anni, ma ora”.

Lo sportwashing è presente anche nel motociclismo: nel Worldsuperbike il titolo mondiale quest’anno è andato al turco Toprak Razgatlioglu, in sella ad una Yamaha e in passato Kenan Sofluglu, grande amico del dittatore Erdogan, ha vinto ben cinque volte il titolo nella Supersport.

Discorso a parte va fatto a mio avviso per le Olimpiadi che sono nel contempo un’operazione di sportwashing e di guerra alla povertà, come accaduto in Brasile che dopo aver ospitato i mondiali di calcio nel 2014 è stata sede olimpica nel 2016.

Una vignetta, meglio di mille parole da www.ilsorrisodeimieibimbi.org/

Le Monde il 5 agosto 2016 ha pubblicato un articolo poi tradotto in italiano da Internazionale, qui il testo integrale, in cui si dice tra l’altro: “… Di recente il direttore generale di Amnesty international Brasile, Atila Pereira Roque, ha duramente criticato l’organizzazione delle Olimpiadi, che secondo lui è stata accompagnata da “una guerra contro i poveri, una guerra contro le favelas”. L’ong ha infatti denunciato i numerosi sfratti e le operazioni compiute nei quartieri più poveri, in particolare per la costruzione degli stadi. Amnesty critica anche l’aumento delle operazioni violente della polizia, che più di una volta hanno provocato dei morti, anche se, con l’avvicinarsi dei giochi, i responsabili della città hanno moltiplicato gli annunci sulla sicurezza. In maggio le forze dell’ordine hanno ucciso 40 persone, più del doppio rispetto al 2015. …”.

E si parla del Brasile prima dell’avvento di Bolsonaro.

 

 

 

 

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