Un processo che ha reso precario il rapporto tra uomo e ambiente, fino a incrinarlo definitivamente. Il 4 novembre 2011, per me ha significato questo, la rottura definitiva di un rapporto di fiducia tra il mio essere umano, l’ambiente che mi circondava, fattori climatici sempre più imprevedibili, scollegati e ingovernabili, e un’infrastruttura fatta di case, strade, ponti e ferrovie che non reggevano la portata eccezionale e spaventosa di fango, acqua e grandine.

L’alluvione di quel giorno rappresenta uno degli eventi che ha marcato in maniera consistente tale separazione, con lo scollamento tra le possibilità di governare l’ambiente da parte dell’uomo e l’uomo stesso che si ritrova bloccato in un inedito fermo immagine. Quell’evento è stato uno dei primi del nostro recente passato a caratterizzarsi in maniera distinta all’interno del quadro di distruzione e disgrazia legato a fenomeni climatici eccessivi: con il tempo avremmo poi dovuto fare i conti con fenomeni simili, drammatici e violenti, in cui la natura faceva sentire a intervalli sempre più frequenti le proprie ragioni al di sopra di quelle dell’umano, costringendoci ad affrontarne le domande e le conseguenze materiali.

L’alluvione del novembre 2011: 6 morti.

Alluvioni e smottamenti si cronicizzano e cambiano radicalmente la percezione all’interno e nei confronti dell’ambiente: si va così ad incrinare sempre più il rapporto di fiducia tra l’uomo e le infrastrutture che permettono lo svolgimento della vita quotidiana: strade allagate, strade interrotte, strade che diventano il teatro drammatico di eventi che fino a poco tempo avremmo potuto chiamare inattesi. Drammi che in realtà, da tempo, così inaspettati non dovrebbero essere, considerato che la storia d’Italia è attraversata da gravi fenomeni alluvionali: la Calabria e il Polesine nel 1951, Salerno nel 1954, Firenze nel 1966, Genova nel 1970 e nel 1992, l’esondazione del Tanaro nel 1994, solo per citarne alcuni.

Dieci anni fa, all’ora di pranzo uscivo da scuola e non sapevo che qualcosa si era rotto e che sarebbe stato difficile se non impossibile riaggiustarlo. Avevo compiuto da poco diciotto anni e non riuscendo a trovare un autobus non avevo potuto fare altro che tornarmene a casa a piedi, camminando per dieci chilometri.

Non avevo idea di che cosa stesse succedendo, anche perché i social network non erano ancora così immediati da darmi risposte immediate.

La Stazione Brignole, sullo sfondo

Non capivo che cosa stesse succedendo mentre davanti alla stazione Brignole l’acqua mi arrivava alle ginocchia, vedevo acqua dappertutto: all’acqua non importava molto delle moto, delle auto, delle strade, dell’allerta meteo, dei ragazzini che dovevano uscire da scuola. A tutta quell’acqua in quel momento non importava nulla, voleva solo prevalere. Superato Brignole avevo percorso tutto il lungo mare: c’era un vento fortissimo e qualcosa, non ricordo cosa, era volato in mare. Quello che era successo tra il suono della campanella e il ritorno l’ho scoperto solo quando a casa, due ore e mezza dopo, avevo realizzato di avere davvero fatto tutta quella strada a piedi e che nessun maledetto autobus era passato. Solo in quel momento avevo capito perché non c’era un solo autobus, perché il telefono non squillava mai, perché mia madre stava in pensiero. La tv restò accesa tutto quel giorno e nei successivi. Le notizie arrivarono confuse prima del bilancio drammatico delle sei vittime portate via dalla corrente mentre si riparavano in un androne di Via Fereggiano. Quella tv che qualche anno dopo avrebbe annunciato la caduta del Ponte Morandi sotto lo stesso cielo scurissimo e minaccioso.

All’acqua non importava molto delle moto, delle auto, delle strade, dell’allerta meteo, dei ragazzini che dovevano uscire da scuola. A tutta quell’acqua in quel momento non importava nulla, voleva solo prevalere

C’è una linea di continuità che lega i due avvenimenti nella medesima città: la pioggia, una valle impraticabile che spezza la città e ne rende difficile il movimento. Soprattutto i due eventi diventano momenti simbolici, – almeno nella storia di Genova, ma non solo – di quella perdita di fiducia, di rapporto con il territorio, con il clima e con le scelte dell’uomo.

Dentro il nostro corpo si era innestata da qualche parte “la paura della pioggia”: quando è tanta, quando non sente ragioni umane, l’acqua che scende dal cielo e può portarti via la macchina, può entrarti in cantina e spazzare via i tuoi ricordi, può entrarti in casa e allora bisogna andare al piano di sopra ed è tutto da rifare. Poi realizzi che la pioggia, se ti trova, può prendere anche te. Nessuno ce lo aveva insegnato e nessuno sembrava preparato a questa cosa che – allora non lo immaginavamo di certo – era arrivata per tornare, se non ogni anno, almeno molto spesso, se non sempre nello stesso posto, almeno in posti più o meno conosciuti, più o meno prossimi. La paura della pioggia. Una delle tante cose nuove che succedono a diciotto anni, una delle promesse mancate del futuro. Quello a cui il futuro ci stava preparando era un futuro di fratture con molte più incertezze che punti fermi, un futuro all’insegna della precarietà (non solo lavorativa).

La recentissima alluvione a Catania

L’evento-disastro si cronicizza, si periodizza: vengono adottate contromisure? La paura si normalizza? Gli eventi, in Liguria così come in tante parti d’Italia e d’Europa diventano sistemici, non più fatti eccezionali, rendendo evidente un cambiamento epocale. Rendono materialmente visibile e tangibile il cambiamento climatico, la superbia di alcuni modus operandi dell’urbanistica, di scelte edilizie sbagliate, fatte di corsi d’acqua sotterrati e incanalati nel cemento che ad un certo punto decidono di venir fuori.

Ciò che è venuto dopo ricorda a tratti un lockdown che ancora non sapevamo chiamare così: giorni chiusi in casa, ancora pioggia, la paura e l’incredulità che ti restano addosso. Allora i social network non erano ancora veloci come sono oggi; tuttavia, c’erano (Facebook nel 2011 aveva già un buon grado di diffusione, almeno tra gli adolescenti). In quei giorni iniziano a svolgere il loro ruolo di network: si creano gruppi, chat e discussioni per intervenire, fare qualcosa, sfogare quella paura, ricostruire, togliere il fango e farlo insieme. Nei giorni che seguirono l’alluvione gradualmente ci si riprende lo spazio necessario: la creazione di una comunità, di un movimento, si ricostruisce e ci si riappropria dello spazio e del tempo, spostando la paura un po’ più in là: degli stivali di plastica, una pala, dei guanti buoni e voglia di fare. Un tempo sospeso in cui l’obiettivo era chiaro e riguardava tutti: ci sentivamo coinvolti e parte di un tutto più grande e molto più importante, bisognava esserci e farne parte, per sdrammatizzare collettivamente quella frattura.

Era un modo per conoscersi e riconoscersi, nella convinzione che quella scelta di campo ci avrebbe resi di fatto superiori a quanto stava accadendo. Al tempo stesso, nasceva in quel modo un nuovo legame con la città, le sue strade, i suoi pezzi: un legame che a fatica si sarebbe spezzato o ricomposto. Eravamo tanti. Ci dicevano che eravamo la meglio gioventù, noi ribattevamo che l’attaccamento a quella Genova (operaia, sociale, partigiana) passava anche da lì. Era un tutto che nell’incoscienza dei nostri diciotto anni ci sembrava allora il nostro tutto, il nostro momento di passaggio, la nostra battaglia per la ricostruzione. In realtà, quello era sì un momento di passaggio, ma non solo per noi. Questo però ancora non potevamo saperlo.

Ottobre 2014, esondazione del Bisagno

Due anni dopo, quando nel 2014 un’altra alluvione insiste sulle stesse zone, ricopiando le stesse mosse, diventa chiaro che non si trattava della stessa cosa. L’eccezionalità (e forse l’ingenuità) di due anni prima lasciava spazio ad alcune domande rispetto alla ciclicità di quegli eventi: un ritorno costante che porta con sé amarezza e le domande sul perché di nuovo qui, sul perché e cosa stia dietro questi eventi. Il crollo del Ponte Morandi, quattro anni dopo, segnerà un altro punto in questa direzione. Il rapporto di fiducia con il clima, gli oggetti, le infrastrutture andava così rinegoziato: ripensato il proprio rapporto con l’ambiente, la quotidianità, il tempo e vanno rinegoziati i (sensi di) colpa umani che stanno dietro questi eventi: personali e politici.

L’alluvione del 2011 riprende e mette in campo gli elementi di un discorso che da lì sarebbe diventato ricorrente (fino forse a depotenziarsi).

Quell’allerta rossa che scattava ogni qualvolta si prospettava un intenso fenomeno atmosferico significava stare in casa e in parte chiudere le attività. Ricordava altre “zone rosse” del recente passato: prima, sempre a Genova, durante il G8 del 2001, poi con il terremoto dell’Aquila del 2009. Sino a quella di Certosa, intorno al relitto del Ponte Morandi, e ancora avanti per arrivare ai più vicini sviluppi pandemici, inscrivendo un lessico della vulnerabilità, urbana e sociale.

I fenomeni alluvionali, è stato spesso ricordato, rendono evidente ed esplicitano la fragilità territoriale, che caratterizza l’Italia da Nord a Sud, accelerandone i processi. Si tratta di una fragilità che è stata definita multidimensionale: molti sono infatti i fattori che concorrono alla sua definizione e di questi i fenomeni di fragilità idrogeologica sono una parte importante. Parlare di giustizia socio spaziale passa, pertanto, anche e soprattutto da una “messa in sicurezza” di un territorio, come si è visto, sempre più incerto sul piano della tenuta materiale. Come le politiche possono prendersi carico di queste fragilità, quali strumenti possano ridefinire sistematicamente, oltre il dato emergenziale, gli orizzonti di lavoro e come possono concorrere a rinsaldare quella relazione di fiducia tra essere umano e ambiente: queste sono le domande di fondo a cui occorre dare risposta.