Da artribune.com: La battaglia di 5Pointz a New York, vincono gli artisti: mega risarcimento per i graffiti cancellati

Sentenza storica per il mondo della street art e del writing. A New York un gruppo di artisti vince una lunga battaglia legale, facendo valere il diritto d’autore sul diritto alla proprietà privata. Arriva un grosso risarcimento, dopo la cancellazione di un tempio dei Graffiti…

Gli artisti di 5Pointz hanno avuto la loro rivincita. A quattro anni dalla demolizione della mitica palazzina newyorchese, simbolo dell’anima creativa del Queens, è giunta la sentenza che mette fine alla vicenda. E si tratta – per coloro che avevano fatto ricorso – di uno strepitoso happy and. Strepitoso perché inatteso, ma soprattutto assai significativo da un punto di vista giuridico: una vera e propria svolta, un precedente importante per i tribunali americani.

VITA E MORTE DI UN TEMPIO DEI GRAFFITI A NYC
Ma riavvolgiamo il nastro. La storia risale agli inizi degli Anni Novanta, quando diversi artisti iniziarono ad affittare case e atelier nel vecchio complesso industriale di Long Island, trasformandolo in un riferimento urbano riconoscibile. L’identità del posto si fece ancor più netta e visibile dal momento in cui i due proprietari – gli immobiliaristi Jerry e David Wolkoff – chiesero agli artisti di dipingere liberamente la facciate del palazzo, avviando un vero e proprio cantiere: decine e decine di graffiti e di murales trasformarono radicalmente la struttura, donando al quartiere un’anima speciale. A 5Pointz (nome che evocava i cinque distretti amministrativi di New York) si dipingeva senza problemi di autorizzazioni, senza controlli, in pieno clima di autogestione. Dal 2002 il writer Meres One (al secolo Jonathan Cohen) divenne curatore del progetto e responsabile di questo incredibile museo a cielo aperto. Tutto cambia a partire dal 2011, con un copione non nuovo in casi come questo: frammenti di città, consacratisi spontaneamente ai linguaggi della controcultura, alla produzione artistica, alla creatività indipendente, di colpo vengono sacrificati nel nome della speculazione edilizia, di investimenti immobiliari, di nuovi piani urbanistici. I Wolkoff decidono di abbattere il palazzo per far posto a due grattacieli con appartamenti di lusso.
L’affare va in porto e nel 2013 si procede con la prima fase: nella notte fra il 18 e il 19 novembre le facciate di 5Pointz vengono imbiancate. Le proteste dei protagonisti, sostenuti dal mondo dell’arte (con la mobilitazione di personaggi del calibro di Banksy), non riescono a bloccare quell’opera di smantellamento: dopo qualche mese le ruspe buttano giù tutto. Il cuore pulsante e anarchico del quartiere lascia spazio a uno tra i mille, stereotipati, svettanti templi del business e del luxury estate metropolitano.

Un murale di Jonathan “Meres One” Cohen

LA BATTAGLIA DEGLI ARTISTI
Ma gli artisti, guidati da Cohen, non ci stanno. E nel 2015 fanno ricorso, chiedendo un risarcimento per il danno subito: anche se le autorità locali non avevano concesso alla palazzina di Davis Street il vincolo di bene culturale, quei graffiti erano opere d’arte. Distrutte contro la volontà degli autori. La norma a cui si appellano è il cosiddetto VARA, acronimo di Visual Artists Rights Act, un codice che tutela negli USA il diritto d’autore quando l’opera appartiene materialmente a qualcun altro. Mai prima d’ora il VARA era stato tirato in ballo per proteggere un lavoro di street e urban art. Eppure, il caso appare più che azzeccato: il destino di un graffito si consuma insieme ai mutamenti dei luoghi, delle superfici, dei contesti, tra lo scorrere di una temporalità selvatica e l’esposizione impietosa al tessuto vivo delle città.
Dietro ogni lavoro, però – effimero per quanto sia – c’è un’idea, un pensiero, una firma, un segno proprio e originale. Esiste dunque un punto, una soglia, oltre cui il tema della tutela diventa legittimo, persino necessario? Esiste in questi casi la ragione del bene artistico, da far valere contro la ragione della proprietà materiale? Il VARA diventa utile proprio quando simili questioni entrano nelle aule dei tribunali. E allora, nel 2017, ecco che il giudice Frederic Block ammette il ricorso, nonostante la contestazione dei proprietari di quel palazzo ormai scomparso. Il tema: si trattava davvero di arte? Quei 49 graffiti andavano protetti? Come tutelare gli autori? Se impedire la demolizione era impossibile, per ovvie ragioni di proprietà privata, la tutela di chi aveva subito la cancellazione non era forse un fatto così assurdo.

UN RISARCIMENTO A SEI ZERI
Il processo si è concluso a novembre 2017 presso il Tribunale Distrettuale Federale di Brooklyn, con la decisione di una giuria civile: gli sviluppatori immobiliari avevano infranto la legge, imbiancando e poi distruggendo dozzine di murales realizzati sulle pareti del complesso, ormai divenuto “un’attrazione turistica di primo piano”. Gli edifici erano dei Wolkoff, ma le opere no; e di opere d’arte, secondo i giurati, si trattava. Con un impatto turistico-culturale notevole e indiscusso.
Ecco che il VARA era così violato: un risarcimento diventava inevitabile. Risarcimento che lunedì 12 febbraio Frederic Block, confermando la sentenza, ha fissato a 6.7 milioni di dollari, da riconoscere ai 21 artisti coinvolti. Cifra considerevole, che ha reso l’esito dell’iter processuale ancor più sorprendente.
“Ci sono stati altri casi in cui dei writers sono stati riconosciuti come meritevoli di protezione“, ha commentato Dean Nicyper, socio dello studio legale Withers Bergman, specializzato in diritto artistico. Ma è la prima volta, ha aggiunto – come riportato dal New York Times – che degli autori di graffiti vengono protetti grazie all’applicazione del VARA. Conquista decisiva. Nessun commento da parte di David Ebert, avvocato dei Wolkoff, mentre Eric Baum, difensore della parte opposta, ha parlato di “una vittoria non solo per gli artisti coinvolti nel caso, ma per gli artisti di tutto il Paese“. C’è da scommetterci: dopo la lunga odissea di 5Pointz qualcosa cambierà, nelle storie e nelle battaglie di chi dipinge in strada. In America e non solo.

Helga Marsala
Helga Marsala è critico d’arte, giornalista, notista culturale e curatore. Insegna all’Accademia di Belle Arti di Roma. Collaboratrice da anni di testate nazionali di settore, ha lavorato a lungo come caporedattore per la piattaforma editoriale Exibart. Nel 2011 è nel gruppo che progetta e lancia la piattaforma Artribune, dove ancora oggi lavora come autore e membro dello staff di direzione. Svolge un’attività di approfondimento teorico attraverso saggi e contributi critici all’interno di pubblicazioni e cataloghi d’arte e cultura contemporanea. Scrive di arti visive, arte pubblica e arte urbana, politica, costume, comunicazione, attualità, moda, musica e linguaggi creativi contemporanei. È stata curatore dell’Archivio SACS presso Riso Museo d’arte contemporanea della Sicilia e membro del Comitato Scientifico, collaborando a più riprese con progetti espositivi, editoriali e di ricerca del Museo. Cura mostre e progetti presso spazi pubblici e privati in Italia, seguendo il lavoro di artisti italiani ed internazionali.

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