Votare? Meglio lottare! Dentro e fuori dal carcere

Rilancio volentieri questo articolo da contromaelstrom – di cui condivido pienamente il contenuto, ci tengo a sottolinearlo – che affronta un argomento stimolante: davvero c’è chi crede che cittadini privati dei più elementari diritti – salute, affettività, lavoro etc – possano avere qualche interesse in quell’esercizio di ipocrisia masochista che sono le elezioni? Anche chi non è contro le elezioni per ragionamento politico e rifiuto della delega sa bene – se ha un minimo di onestà intellettuale- quanto poco valga il voto espresso nelle urne: una delega in bianco a individui che ormai non ritengono nemmeno più necessario salvare le apparenze. Ci siamo dimenticati degli inviti ad andare al mare in occasione di referendum sgraditi al palazzo (Craxi e più recentemente Renzi) e al Vaticano (ad esempio Ruini in occasione del referendum sulla legge 40)? Ovviamente in barba alle leggi vigenti (articolo 98 del testo unico delle leggi elettorali per la Camera): “Il pubblico ufficiale, l’incaricato di un pubblico servizio, l’esercente di un servizio di pubblica necessità, il ministro di qualsiasi culto, chiunque investito di un pubblico potere o funzione civile o militare, abusando delle proprie attribuzioni e nell’esercizio di esse, si adopera a costringere gli elettori a firmare una dichiarazione di presentazione di candidati od a vincolare i suffragi degli elettori a favore od in pregiudizio di determinate liste o di determinati candidati o ad indurli all’astensione, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da lire 600.000 a lire 4.000.000.” Concetto, e pena, ribaditi anche dall’articolo 51 della legge che disciplina i referendum (la n. 352 del 1970). 

Nelle carceri si può votare … oppure …

di contromaelstrom

Nelle carceri si può votare? Certo, nelle carceri si può esercitare il voto.

Possono votare tutte le persone detenute non condannate definitivamente, ossia chi è in attesa del primo grado di giudizio, chi è appellante e chi è ricorrente in Cassazione.

Coloro che sono condannati/e definitivamente, non possono votare se hanno in sentenza la pena accessoria della “interdizione perpetua o temporanea dai pubblici uffici” e se condannati/e all’ergastolo. Tutti gli/le altri/e condannati definitivamente possono votare.

A tal fine si predispongono negli istituti carcerari seggi elettorali.

Fin qui per ricordare le norme che regolano il voto per le persone in carcere.
Quello su cui ho qualcosa da dire riguarda gli appelli che giungono da ogni parte, anche dalle carceri, che esortano le persone in carcere a votare, per una lista o per l’altra, affermando che, per mezzo dell’espressione del voto, detenuti e detenute possono diventare protagonisti politici delegando qualche lista e chiedere di migliorare le carceri e poter scontare la pena nella legalità e umanità.

Non voglio consigliare nessuno/a a votare o non votare, né per chi votare. Voglio ricordare che la popolazione prigioniera ha nella sua recente storia una attività importante e di grande valore politico. Quando, organizzandosi in collettivi, sfidando la disciplina carceraria che fa divieto e impedisce a chi sta in prigione di organizzarsi e fare assemblee, nel mentre resistevano alla devastazione della galera, hanno analizzato approfonditamente il ruolo del carcere nella società attuale, capitalistica.

Hanno espresso riflessioni ancor oggi valide, come la critica all’istituzione carceraria che educa all’egoismo, all’individualismo, ad essere ruffiani, spie, lacchè, a tradire i propri compagni, a leccare i piedi alle autorità.
Hanno individuato il ruolo della giustizia e del diritto nella società divisa in classi che non sono né possono essere confusi con l’interesse generale o un bene comune, ma sono strumenti per il mantenimento dell’ordine sociale basato sulla perpetuazione dello sfruttamento di chi lavora da parte delle classi sfruttatrici. La galera non è che l’ultimo tassello di una catena formata dalla giustizia classista, dal diritto classista e dalla repressione altrettanto classista.
Per questo la parte più attiva della popolazione detenuta, qualche tempo fa, si è organizzata in collettivi e ha lottato per migliorare le condizioni di chi è recluso/a, non attraverso leggi e regolamenti, ma aumentando il rapporto di forza tra carcerati e carcerieri a favore dei carcerati attraverso lotte, rivolte, evasioni. Con l’obiettivo chiaro di giungere all’abolizione del carcere!

Questa è la storia della popolazione carcerata da non dimenticare, ma da ravvivare. Non certo l’abitudine alla delega.
Qui appresso alcuni loro scritti di quando si lottava collettivamente:
«…l’innocenza che rivendica il detenuto non è quella generica di chi trova sproporzionata la pena. È l’innocenza storica dello sfruttato, dell’isolato, dell’oppresso, dell’alienato. Il reato perde la sua dimensione assoluta, si relativizza e scompare come reato…»
«…Non viene criticata l’ineguaglianza delle leggi: è una constatazione troppo facile. È l’istituto “giustizia” che si rivela tutto sbagliato».
«…La risocializzazione non è un fatto esterno, imposto, insegnato meccanicamente. Deve essere conquistato dal carcerato, come soggetto e non oggetto, e come appartenente ad una collettività. Questo significa che solamente acquisendo coscienza sociale, di classe, il detenuto può rompere con la delinquenza, ma ciò porta a una sola via d’uscita: quella di diventare un rivoluzionario».
«…I detenuti comuni, gli sbandati, i ribelli senza speranza, noi ve li ritorneremo con una coscienza rivoluzionaria. Questo è il mio impegno, questo è il vostro errore».
Lo stato, le istituzioni e tutte le forze politiche e militari hanno schiacciato sotto i cingoli dei carri armati questa grande prova di autorganizzazione democratica sviluppata nelle fabbriche, nelle carceri e in ogni altro aggregato popolare. Hanno silenziato col rumore delle armi da fuoco e quello dei chiavistelli dei penitenziari l’antagonismo pratico che voleva cambiare l’esistente. Ne è seguito un silenzio mortifero, nel quale sono moltiplicati i grandi traffici e le mafie che proliferano perché non vogliono cambiare l’esistente, anzi ci convivono talmente bene che vogliono mantenerlo.

E oggi da qualche parte si inciampa nell’affermare che “la giustizia è un bene comune”. NO! la giustizia è di classe, lo era ieri, lo è oggi e lo sarà domani, finché, abolendo le classi, la giustizia scomparirà, in quanto utile al mantenimento delle classi. La giustizia favorisce le classi sfruttatrici e colpisce le classi sfruttate. La giustizia è utile a mantenere il sistema politico-economico attuale basato sullo sfruttamento, sulla devastazione di masse umane, di ambienti e sulla produzione di guerre.

Aboliamo le galere

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