In barba alla Costituzione: “Suicidi in carcere, punizioni disciplinari per chi sopravvive”

L’articolo di oggi dal notiziario dal e sul carcere di Ristretti.it, qui, parla dei suicidi in carcere e lo fa con riflessioni molto interessanti che Chiara Penna, avvocato e criminologa del Foro di Cosenza, espone sul suo sito con pacatezza ma con molta chiarezza. Qui  un video in cui l’avvocato Chiara Penna parla di “Mal di Vivere: troppi suicidi tra i giovani nella nostra provincia”. Qui trovate un interessante articolo sul trattamento penitenziario, da “L’altro diritto Centro di documentazione su carcere, devianza e marginalità”. Qui, infine, il dossier Morire di carcere di Ristretti.it. Le Immagini sono scelte da me.

“Suicidi in carcere, punizioni disciplinari per chi sopravvive”

chiarapenna.it, 24 ottobre 2017

Il numero dei suicidi in ambito penitenziario è di molto superiore rispetto alla frequenza con cui purtroppo si tolgono la vita le persone libere. In alcuni casi è vero che molti detenuti erano affetti da malattie invalidanti e ricoverati in Centri Clinici Penitenziari, ma sono stati registrati molti casi di suicidio anche tra soggetti non gravemente malati.
Cercare la giustificazione di tali gesti nel disturbo mentale o nella tossicodipendenza non è, dunque, la strada giusta per affrontare il problema, così come poco efficaci appaiono gli interventi punitivi nei confronti di chi sopravvive. Il tentativo di suicidio compiuto in carcere è, infatti, punito disciplinarmente (come avviene anche per gli atti di autolesionismo, il tatuaggio, il piercing), riconducendo l’azione a quanto stabilito dall’art. 77 del Regolamento esecutivo Ord. Pen. e prevedendo sanzioni ex art. 39 Ord. Pen. come il richiamo, l’isolamento e l’esclusione dalle attività.
Al fine di rispondere adeguatamente al fenomeno, si dovrebbe piuttosto ragionare sulle motivazioni che spingono al compimento di tali azioni, sul momento in cui si verificano, sulla ragione per cui un soggetto è ristretto e sulle condizioni delle carceri italiane. Se infatti l’ingresso in carcere ed i giorni immediatamente seguenti sono un momento nel quale il rischio suicidio appare molto elevato, restano alti anche i numeri dei suicidi di chi paradossalmente è giunto a fine pena, poiché l’elemento che accomuna i suicidi è la mancanza totale di prospettive nell’animo del detenuto.
Non solo, i detenuti per omicidio (che sono il 2,4% di tutti i detenuti, tra attesa di giudizio ed espiazione pena) rappresentano ben il 13% dei casi di suicidio registrati, con un numero di suicidi più alto tra i soggetti autori di omicidi in famiglia e quasi inesistente tra i responsabili di delitti maturati nell’ambito della criminalità organizzata. Ancora, si uccidono più gli italiani che gli stranieri se si considera che su una presenza straniera del 30% circa sul totale dei detenuti, i suicidi degli stranieri sono il 16%.
Tuttavia questa percentuale potrebbe essere sottostimata, in considerazione della maggiore difficoltà a raccogliere notizie sulle morti dei detenuti stranieri, spesso privi di qualsiasi rete di sostegno.
Del resto anche il numero complessivo dei suicidi è probabilmente sottostimato, dal momento che tra i detenuti esiste ad esempio la pratica del drogarsi inalando il gas delle bombolette per alimenti e l’esito mortale di tale condotta viene spesso considerato dall’amministrazione penitenziaria come atto involontario, anche se non di rado si tratta di suicidio.
Si dovrebbe agire, pertanto, per tutti i detenuti ed all’interno di tutti gli Istituti, in termini di prevenzione poiché la mancanza di prospettive che si ingenera in chi è ristretto è data dalla sensazione di non poter trascorrere utilmente la detenzione. Il tempo della pena è, infatti, spesso tempo vuoto, vissuto in Istituti sempre più cadenti e affollati, dove i progetti formativi vengono ostacolati e dove si sopravvive senza alcuna dignità sociale, che dovrebbe invece essere garantita soprattutto a chi è ancora giudicabile. Al contrario proprio il nome di queste persone è pubblicamente ed inesorabilmente associato a vicende criminali che restano impresse nella memoria della gente anche dopo una sentenza di assoluzione.
Non a caso circa un terzo dei soggetti suicidi aveva un’età compresa tra i 20 e i 30 anni e, più di un quarto, un’età compresa tra i 30 e i 40 (in queste due fasce d’età il totale dei detenuti è, rispettivamente, il 36% e il 27%) forse proprio per l’incapacità di affrontare una vita carceraria vissuta in questi termini e per l’impossibilità di intravedere un futuro dopo la detenzione.
Nel dettaglio le statistiche dei suicidi in carcere mostrano i seguenti numeri: dal 2009 al 31 agosto 2016: 423 suicidi. Di cui: 326 per impiccagione, ?64 con il gas, 20 con l’avvelenamento, 6 con il soffocamento. La fascia di età su cui le sofferenze del carcere hanno avuto maggiore incidenza è quella tra i 30 e i 44 anni: 66 i casi di suicidi in età compresa tra i 30 e i 34 anni, 66 tra i 25 e i 29 anni, 65 tra i 35 e 39, 63 tra i 40 e i 44. Le fasce meno colpite sono quelle tra i 17 e 19 anni (5 casi) e dai 60 in su (9 casi).
Elemento che incide, poi, in maniera direttamente proporzionale sul tasso di suicidi è il sovraffollamento carcerario. L’unico modo per migliorare le condizioni di vita all’interno del carcere sarebbe, dunque, oltre l’affrontare il complesso problema del sovraffollamento, incentivare il ruolo e la presenza degli educatori al fine di garantire il reinserimento del detenuto, la risocializzazione e l’umanità della pena secondo quanto previsto dal dettato costituzionale di cui all’art. 27. La tutela della salute di questi soggetti è, infatti, preciso dovere etico, oltre che giuridico, poiché la condanna a pena detentiva non deve implicare la compromissione dei diritti umani fondamentali.

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